MILANO – “Water to Food” è il progetto elaborato dal Politecnico di Torino sull’impatto che la produzione e il commercio di cibo hanno sulle risorse idriche mondiali e locali. Tutti sanno che l’acqua è un bene prezioso e rappresenta una condizione essenziale per la vita. L’acqua potabile non è una risorsa inesauribile e illimitata perciò va utilizzata con parsimonia. La presenza di acqua piovana risente fortemente del cambiamento climatico a cui stiamo assistendo. Il nostro pianeta è composto dall’80% di acqua e di questa quantità solo il 3% è acqua dolce e di questa percentuale una buona parte è stoccata nei poli. Quindi la risorsa necessaria alla vita sulla terra non è di per sé presente in una grande disponibilità e per di più non è distribuita in modo uniforme in tutte le regioni del mondo. Nelle zone temperate del pianeta c’è grande disponibilità di acqua e questo ha permesso lo svilupparsi dell’urbanizzazione e di fondamentali settori economici come l’agricoltura e l’industria. Nelle zone urbanizzate è previsto entro il 2050 un aumento del consumo dell’acqua dal 30% al 50% per il fabbisogno delle industrie e dell’agricoltura tanto che le città in espansione potrebbero dover affrontare problemi di scarsità.
Tante le buone ragioni per riflettere sull’uso che se ne fa ogni giorno. Per esempio ci si è mai chiesti quanta acqua serve per produrre i chicchi di caffè che finiscono in una sola tazzina? E per un piatto di pasta o una semplice mela? Oggi, grazie a questo nuovo progetto è possibile saperlo con un semplice click del mouse. “Water To Food” è un progetto di comunicazione di dati e informazioni sull’impatto che la produzione e il commercio internazionale di cibo hanno sulle risorse idriche mondiali e locali. Il progetto nasce durante il lockdown da un’idea di tre giovani ricercatrici: Benedetta Falsetti, Carla Sciarra e Marta Tuninetti che nell’ultimo anno hanno lavorato al fianco di un team di esperti in comunicazione digitale. L’obiettivo è di mettere a disposizione della società i dati riguardanti l’acqua virtuale contenuta nel cibo che si consuma, ovvero l’acqua che, prelevata da una nazione per coltivare e lavorare un determinato bene, si sposta con esso dal posto di produzione al posto di consumo.
L’idea è partita dal progetto di ricerca europeo Coping with Water Scarcity In a globalized world, CWASI, coordinato da Francesco Laio docente presso il Dipartimento di Ingegneria per l’ambiente. I dati prodotti nel tempo dai ricercatori sono stati un ottimo punto di partenza del progetto “Water to Food”. Esso ha l’obiettivo di mettere a disposizione della società i dati riguardanti l’acqua virtuale contenuta nel cibo che si consuma, ovvero l’acqua che, prelevata da una nazione per coltivare e lavorare un determinato bene, si sposta con esso dal posto di produzione al posto di consumo Questi dati, prodotti durante il lavoro di diversi anni da parte dei ricercatori del progetto CWASI sono oggi facilmente accessibili e utilizzabili da chiunque voglia informarsi sul tema.
Sarebbe utile fare attenzione quando si fa la spesa a cosa è meglio comprare in termini di consumo di acqua per la produzione di un determinato prodotto. Basta collegarsi al sito watertofood.org e accedere alla sezione Play with data, e controllare il valore della “water footprint” l’impronta idrica del prodotto, analizzando le differenze tra i posti diversi di produzione. L’Europa ha emanato una serie di direttive e documenti allo scopo di gestire meglio la risorsa idrica. A tal fine ha identificato uno strumento per supportare questo miglioramento di gestione, il WFTP. La Water Footprint, assieme alla Carbon Footprint è uno degli indicatori dell’impronta ambientale. L’impronta idrica è un indicatore di utilizzo di acqua dolce tra cui il consumo di acqua diretto di un consumatore o di un produttore e anche l’uso dell’acqua indirettamente legate alla produzione e al consumo di materie prime. E così si può scoprire che per produrre un chilo di caffè etiope servono più di undicimila litri di acqua e che l’Italia importa dall’Etiopia circa 95 milioni di metri cubi di acqua proprio sotto forma di chicchi da tostare. Per la pasta invece tra i vari stati da cui proviene il grano, l’Italia importa da Russia, Australia, Stati Uniti e Canada, stato da cui importa più di un miliardo di metri cubi di acqua virtuale.
Si stima che il volume totale di acqua virtuale che l’Italia importa sotto forma di cibo nel corso di un anno sia circa 1750 chilometri cubi (secondo una stima fatta per l’anno 2016). “Water to Food è pensato per tutti coloro i quali, sensibili a questo tema, e volenterosi nel ridurre l’impatto sulle risorse idriche della propria dieta, accedono in maniera piuttosto rapida e semplice ad un vasto database di informazioni che possono essere utili nella scelta degli acquisti promuovendo un consumo di acqua più sostenibile. Sul sito Water to Food sono riportati i risultati della ricerca attraverso un libro di info grafiche. Questo portale, ricco di tante informazioni, potrebbe diventare presto un punto di riferimento per tutti gli interessati e per altri ricercatori per creare sinergie di lavoro.
Margherita Bonfilio
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