GUBBIO (Perugia) – I capelli castano chiari e gli occhi cerulei, la figura snella, fragile. Una donna colta e dal portamento elegante, signorile. Tutto si sarebbe detto di quella ragazza meno che fosse una partigiana, pronta a trovar rifugio nelle stalle, nei fossi e nei boschi e, se necessario, a dormire all’addiaccio. Invece lo era. E di che tempra: si distinse nella lotta di Resistenza tanto da arrivare a comandare un gruppo di sabotatori, da ottenere una medaglia d’argento al valor militare e il titolo di sottotenente. E, persino, da essere inseguita da ben otto ordini di cattura – tanto veniva considerata pericolosa – emessi delle autorità nazi-fasciste, che avrebbero voluto fucilarla. Se la figura minuta non corrispondeva, apparentemente, alle funzioni di guerrigliera della libertà, il nome, quello sì, diceva tutto: le era stato imposto, in epoca non sospetta, dal padre e dalla madre – Laura, spirata a soli 29 anni – il nome di Walkiria. “Nomen omen”, dicevano i latini. Quando la giornalista Rai Stefania Panfili, intervistandola, le chiese quale nomignolo avesse usato con i compagni di lotta, lei replicò: “Non ne avevo bisogno… Me lo avevano già messo i miei genitori alla nascita…”.
Le Walkirie, nelle saghe nordiche, sono le intrepide guerriere figlie del dio della guerra votate ad ogni azione bellica. E lei, di famiglia antifascista – il padre, avvocato Gustavo Terradura Vagnarelli, i fratelli Araldo ed Enrico, la sorella Lionella (più piccola d’età, coi lunghi capelli color rame, ma altrettanto bella e combattiva) tutti partigiani, chi in Italia, chi all’estero – già ai tempi del liceo era stata convocata più volte e ammonita dai questurini per il suo comportamento e le sue frasi pronunciate, senza veli o ipocrisie, contro il regime. Cresciuta in un ambiente di quel tipo il suo destino appariva segnato. La svolta della sua vita si registrò il 13 gennaio 1944. Walchiria, iscritta alla facoltà di Giurisprudenza all’ateneo di Perugia e pronta a seguire pure nella professione le orme paterne, aveva appena festeggiato il diciannovesimo compleanno (essendo nata il 9 gennaio 1924, nel segno zodiacale del Capricorno). Quel giorno, di gelo polare e di neve, gli agenti dell’Ovra (Opera Vigilanza Repressione Antifascista) piombati da Perugia, bussarono con violenza alla porta del palazzo nobiliare in cui la famiglia abitava per prelevare e portare in cella l’avvocato Terradura, scarcerato qualche mese prima dal governo Badoglio, dopo la seduta del Gran Consiglio che sfociò nell’arresto di Benito Mussolini.
Fu lei a salvare, in quella circostanza, il padre e se stessa. Si ricordò, di come, all’ultimo piano, in soffitta, ci fosse, nascosto tra grandi travi di legno, uno spazio, sia pure risicato ma ben nascosto, in cui infilarsi. Lei e i suoi fratelli, da piccini lo usavano come nascondiglio nei loro giochi. I due riuscirono – non senza fatica perché quel rifugio era posto in alto e perché non avevano scale per raggiungerlo comodamente – ad incunearsi all’interno e rimasero lì dentro, abbracciati stretti ed immobili per quasi otto ore, mentre la polizia fascista metteva a soqquadro l’intera casa e non riusciva a capacitarsi di come – avendo accerchiato l’intero quartiere -, i due ricercati fossero svaniti nel nulla. Partiti gli agenti dell’Ovra, schiumanti di rabbia per lo scacco subito, padre e figlia si diedero alla macchia, abbandonando Gubbio, ormai troppo pericolosa (Lionella li avrebbe seguiti qualche tempo dopo). Camminarono per ore ed ore, anche di notte, fino a raggiungere i monti e le selve del Burano, nelle confinanti Marche. Qui si aggregarono alla banda capitanata da Samuele Panichi, comandante del quinto battaglione della V Brigata Garibaldi-Pesaro. Fu così che la studentessa universitaria, lasciati i libri ed i codici, imbracciò le armi di partigiana combattente.
Non semplicemente staffetta o con compiti logistici, ma soldato a tutti gli effetti. Alla cintola portava una pistola belga – regalo del compagno di lotta Gildo, ucciso, pochi mesi dopo, in uno scontro a fuoco durante il passaggio del fronte – impugnava un mitra Sten e sulle spalle recava uno zaino con gli effetti personali ed i caricatori di riserva. Il suo magazzino mobile. Mesi durissimi, quelli, per Walkiria ed i suoi compagni. Ma anche gloriosi. A lei venne, quasi subito, affidato il comando di un gruppo di sette membri (gli altri tutti uomini: Carlo, Oreste, Silvio, Gildo, Valentino, Amedeo), soprannominato il “Settebello”, col compito di effettuare azioni di sabotaggio contro il nemico. Era stato Valentino Guerra, ex geniere dell’Esercito Italiano ed esperto di esplosivi, a proporre Walkiria, buona oratrice e formata politicamente, quale comandante. E quel pugno di patrioti, quasi tutti umbri, riuscì a minare e far saltare in aria ben tre ponti, grazie al plastico ed alle armi che gli aerei alleati lanciavano, con i loro paracadute bianchi e rossi (trasformati in camicette e fazzolettoni) sulle zone impervie di montagna tra l’Umbria e le Marche.
L’episodio nel quale la studentessa universitaria si mise in luce particolare per sprezzo del pericolo, intelligenza tattica e prontezza di riflessi si registrò durante la ritirata delle truppe tedesche e dei repubblichini. Si trovava Walkiria, insieme a Valentino Guerra, nelle vicinanze di Città di Castello. I tedeschi attraverso strade poco frequentate, per sfuggire ai bombardamenti alleati, stavano arretrando verso nord, per attestarsi sulla Linea Gotica. La coppia di partigiani si trovò di fronte, lungo una strada tortuosa, tre autocarri della Wermacht, con due soldati su ogni mezzo. Walkiria e Valentino attaccarono a sorpresa la colonna con lancio di bombe e raffiche di mitra, uccidendo un tedesco e ferendone altri, con una intensità di fuoco e di aggressività tali da costringere i nemici, colti di sorpresa e che ipotizzarono di trovarsi di fronte un numero maggiore di avversari, ad una precipitosa fuga a piedi in direzione del fondo valle. I due partigiani, in quell’ardimentoso assalto, raccolsero un buon numero di armi e requisirono i tre automezzi. Un ricco bottino, insomma.
Confidò la partigiana eugubina una ventina di anni fa, nella sua intervista alla Panfili: “Credimi, a venti anni non è facile sparare a ragazzi della tua stessa età…”. Come non era stato facile affrontare quei mesi di lotta tra Burano, Caibelli, Apecchio, Cagli, San Polo, Secchiano, Veia, San Fiordo, Cantiano (nelle Marche), Pianello, Umbertide, Assisi, Pietralunga, Monte Subasio, Gubbio (in Umbria), spostandosi di luogo in luogo, tra l’odore nauseante delle stalle dove i combattenti dormivano alla meno peggio sulla paglia, rosicchiando pezzi di pane secco e di formaggio, qualche volta ingoiando una minestra fatta di acqua e di un pezzo di lardo, tra gli schiocchi secchi dei moschetti e i rosari assordanti delle mitragliatrici, le urla dei feriti, i gemiti degli agonizzanti, il timore costante di essere presi e fucilati sul posto, come avvenne per tanti di loro e persino per un numero altissimo di inermi contadini, vecchi e giovani, uomini e donne, massacrati nelle loro case o nei campi dalla cieca ferocia maxi-fascista.
Walkiria riuscì a salvarsi. E, in compagnia di un partigiano che aveva partecipato alla guerra di Spagna, raggiunse Umbertide, dove erano appena entrati gli anglo-americani e dove poté festeggiare la liberazione della città. Fu in questo periodo che conobbe un capitano della Oss (Office of Strategic Services), Alfonso Thiele. I due si innamorarono e si sposarono. Finita la guerra si trasferirono negli Usa dove nacquero Serenella (diventata un medico) ed Erich. Un paio d’anni più tardi la famiglia rientrò in Italia. Ora Walkiria vive a Roma, con la figlia. Confessò, mutuando una frase di un’altra partigiana, Carla Capponi, capitano e medaglia d’oro al valor militare: “Ho fatto la Resistenza col cuore di donna”. Ma anche con la forza, il coraggio e la determinazione di un uomo.
Elio Clero Bertoldi
Nell’immagine di copertina, Walkiria Terradura
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