PERUGIA – “L’invisibile” – come lo definivano quasi indossasse “l’anello di Gige”, personaggio del mito – è finito nella rete, lanciata con l'”Operazione Tramonto” dei Ros, nome scelto per ricordare la poesia di una bambina, Nadia Nencioni, morta a Firenze nell’attentato con autobomba di via dei Gergofili (1993).
Sono stati necessari trenta anni, tanta è durata la latitanza di questo criminale assassino, che ha goduto di chissà quanti e quali aiuti, ma alla fine le indagini, sofferte, faticose, durissime, hanno partorito un risultato pieno e soddisfacente: Matteo Messina Denaro, 60 anni, capo del mandamento mafioso di Trapani-Alcamo-Mazara del Vallo-Castelvetrano, uno dei ras di Cosa Nostra, con potere allargato pure nel palermitano e nell’agrigentino, figlioccio di Salvatore Riina, “u Curtu”, da lunedì 16 gennaio è, finalmente, in mano alla giustizia. “Sì, sono Matteo Messina Denaro”, ha risposto alla domanda diretta dell’ufficiale al comando dell’operazione, l’uomo considerato tra i primi 400 Paperoni d’Italia.
MMD custodiva nel borsello due Smartphone ed una agenda che potrebbero rivelarsi utili per sgominare la rete di fiancheggiatori che ha sostenuto il ricercato, protetto non solo dall’omertà, dalle connivenze, dalle sue enormi sostanze, provento di illeciti lucrosi di ogni genere, ma anche da personalità insospettabili tanto che sono stati condannati, negli anni, persino agenti delle forze dell’ordine e dei servizi segreti. E si sospetta pure l’appoggio di soggetti ancora più in alto in Sicilia, in Calabria e fuori…
Gli uomini del Ros hanno pizzicato MMD in una clinica privata, “La Maddalena”, nel quartiere San Lorenzo, Palermo nord, dove si era recato, nella prima mattinata, per un paio di visite (una oculistica, l’altra per sottoporsi ad un ciclo di chemioterapia, in seguito a due interventi chirurgici in due anni al colon ed al fegato), sotto le spoglie – ed il documento di identità ben falsificato e rilasciato ormai da ben sei anni – di un geometra di Campobello di Mazara, Andrea Bonafede, subito indagato: oltre all’identità, il professionista avrebbe fornito al boss amico, dai tempi della gioventù, anche l’abitazione (di settanta metri quadrati, comprata con i soldi del ricercato) in pieno paese (conta 11.000 abitanti), nel vicolo San Vito, nr. 31, civico 7, all’angolo di via Vittorio Emanuele II, una delle strade principali della cittadina. Un covo, vero e proprio, un bunker nascosto dietro un mobile, è stato poi individuato in via Maggiore Toselli, 34 a 500 metri da casa Bonafede, dietro una parete blindata, nella abitazione di una coppia. Conterrà l’archivio della mafia? Spunteranno fuori l’agenda ed i segreti di Riina, lasciati al figlioccio? Si vedrà.
Particolare singolare: il blitz nei confronti di MMD è stato organizzato a tre decenni ed un giorno dalla cattura dello spietato “U Curto”: le idi di gennaio fatali ai boss della Cupola… Il mafioso catturato, che per sicurezza, mandava ordini e disposizioni esclusivamente con pizzini di carta scritti a mano e consegnati da un latore (seguendo gli insegnamenti dei suoi maestri corleonesi) sarebbe stato tradito – ironia del destino – dalla tecnologia: gli investigatori dell’Arma avrebbero intercettato i familiari che parlavano, preoccupati, del tumore del congiunto (al colon con metastasi al fegato) ed avrebbero così incrociato al computer i dati del Sistema Nazionale Sanitario sui soggetti in cura fino ad arrivare al paziente giusto.
Da giovane Messina Denaro veniva chiamato “U signorino”, perché aveva frequentato l’istituto commerciale “Ferrigno” (anche se l’interessato sosteneva: “Non aver studiato è uno dei miei rimpianti”), prediligeva gli abiti di Armani, esibiva al polso un Rolex Daytona, girava in Porsche, portava occhiali da vista Ray Ban per un deficit all’occhio sinistro ed un leggero strabismo. Difetto che non gli aveva impedito di cominciare a sparare a 14 anni e di ammazzare la sua prima vittima a 18.
Anche se oggi appare appesantito nel fisico e minato dalla malattia oncologica, quest’uomo che ha ucciso o fatto uccidere decine e decine di persone tra cui bambini sciolti nell’acido (come Giuseppe Di Matteo, cinicamente soppresso per impedire al padre Santino di continuare a collaborare con la giustizia) e strangolato con le proprie mani donne innocenti (come Antonella Bonomo, 30 anni, incinta di tre mesi, compagna di un boss recalcitrante al dominio dei “viddani” di Corleone), è rimasto lo stesso, nei gusti estetici: al momento dell’arresto indossava capi griffati (a cominciare da un giaccone di pelle e da un berretto “en pendant”, lana e pelle), scarpe di vitello all’ultima moda, occhiali eleganti dalle lenti da vista affumicate, una sciarpa Yves Saint Laurent e un orologio “Jack Miller” da oltre 30mila euro. A tracolla un borsello di pelle nero.
Nell’appartamento gli investigatori hanno sequestrato capi di lusso (quattro camicie da 700 euro…), sneakers “dernier cri”, borse Prada e Vuitton, una cyclette, un tapis roulant, un frigo pieno di ogni ben di dio (champagne, compreso), scontrini fiscali di ristoranti e locali a significare che non viveva certo da eremita (come il suo sodale Binnu Provenzano), ma se ne andava tranquillamente in ogni dove, spesso con la sua Alfa 164. Per essere accompagnato in clinica aveva scelto, quale autista di una anonima Fiat Brava, un incensurato, il commerciante di olive Giovanni Luppino, suo compaesano e complice (finito indagato). L’imprendibile riteneva – sbagliando, per fortuna dei cittadini onesti – di farla ancora franca.
Dei reati di cui si è macchiato (si vantava spesso di aver ammazzato tante persone da “riempirci un cimitero intero”) daranno conto, si spera quanto prima, le ulteriori indagini: l’arrestato ha già, comunque, un ergastolo ed altre lunghe pene detentive entrate in giudicato, dunque da scontare.
Messina Denaro appartiene al “gotha” della più feroce criminalità organizzata sicula, insieme ai fratelli Graviano, della famiglia di Brancaccio ed a Leoluca Bagarella, di Corleone, cognato di Riina, come emerso dalle operazioni Petrov, Omega, Golem e da alcuni processi già definitivi. Non il “Capo dei Capi” come Riina, ma uno che conta tantissimo in Cosa Nostra. Narrano che abbia respinto, novello Cesare, la corona che gli veniva offerta, dopo la morte del padrino. “Mi basta il mio mandamento…”, avrebbe spiegato, rinunciando al ruolo. Con i tre feroci compari di tanti sanguinosi delitti, aveva tentato di ammazzare, a colpi di kalashnikov (che gli si era inceppato, ad un certo punto), il commissario Rino Germanà, sul lungomare Fata Morgana di Mazara: il poliziotto, però, aveva replicato al fuoco mafioso ed era riuscito a sottrarsi all’agguato, tuffandosi in mare.
D’altro canto “U siccu” (altro nomignolo, sebbene lui preferisse lo pseudonimo “Diabolik”) proviene da una famiglia di mafia, come il padre Francesco, “don Ciccio”, capo del mandamento di Trapani-Castelvetrano, fino alla morte e come il padrino di cresima, Antonio Marotta, ex affiliato di Salvatore Giuliano. Con tali referenze, il giovane picciotto, per cinque anni aggregato alla “scuola” di Riina, si era gettato nella mischia, in maniera decisa, rampante, scalando le posizioni fino ai vertici. Gli inquirenti gli attribuiscono un ruolo primario nelle tremende stragi del 1992 in Sicilia (Falcone, Morvillo e Borsellino ed i loro agenti di scorta) ed in quelle altrettanto angoscianti del 1993 in continente (Roma, Firenze, Milano), sempre con una terrificante scia di sangue, di morti e di feriti. Svolgeva, fino all’arresto, una funzione primaria nei confronti della “borghesia mafiosa”, cioè gli imprenditori, i professionisti, i consulenti di alto livello negli enti pubblici che non hanno problemi, anzi sono pronti a stringere alleanze di affari, con la criminalità organizzata, in nome del dio danaro. Un innovatore della tradizione mafiosa dei suoi padrini storici: meno “pizzo”, più condivisione nelle imprese economiche. Tutti guadagnano e così regnano l’omertà e la pax mafiosa.
La latitanza “U siccu” l’aveva iniziata nel corso di una vacanza a Forte dei Marmi con gli inseparabili fratelli Graviano, Filippo e Giuseppe, tre giorni dopo una deposizione in tribunale, durante la quale era rimasta traccia della sua voce in una registrazione. Da allora, girando per il mondo in lungo e in largo e approfittando delle ricchezze via via accumulate con le estorsioni, il mercato illecito dei rifiuti, il riciclaggio, gli appalti, il traffico di droga, si era costruito un vero e proprio impero del crimine, dal valore di miliardi (impianti eolici, alberghi, supermercati, gasolio di contrabbando e chissà cos’altro). E pensare che, da “picciotto” era riuscito a farsi versare dallo Stato pure l’indennità di disoccupazione…
Sul braccio sinistro MMD si è fatto disegnare un tatuaggio: una data (8.10.81), una frase in italiano (“Tra le selvagge tigri”) ed una addirittura in latino (“Ad augusta per angusta”). Alcuni pentiti riferiscono che il boss si sia sottoposto ad un intervento di chirurgia plastica: chi sostiene in Piemonte o in Val d’Aosta, chi in Bulgaria (dove si sarebbe fatto “trattare” pure i polpastrelli, per non essere riconosciuto dalle impronte digitali). Tifoso del Palermo, Messina Denaro – lo dichiara un collaboratore di giustizia – avrebbe seguito, in modo sfrontato – ricercato come era -, nel 2010, sugli spalti del Barbera, la partita dei rosanero con la Samp.
Tra le sue debolezze il fumo (consumatore accanito di un paio di pacchetti di Marlboro e Merit al giorno) e i videogiochi (per i quali mostra una dipendenza maniacale). Amante e appassionato delle cose belle, aveva progettato persino il furto del “Satiro danzante”, ospitato nel museo archeologico di Mazara del Vallo, colpo per fortuna abortito e aveva acquisito (con altri) il castello di Castelvetrano, fatto costruire nel 1239 da Federico II, lo “stupor mundi”. Quando si dice le manìe di grandezza…
In una lettera, firmata “Alessio”, il capomafia affermava qualche anno fa: “Ho visto ciò che la vita mi ha dato e non ho avuto paura e non ho girato lo sguardo di là e non ho perdonato ciò che non si può perdonare”. Gli viene riconosciuta anche la frequentazione di diverse donne, sebbene non si sia mai sposato. Uno “sciupa femmine”, secondo la voce popolare: nella sua casa-covo trovate tracce di visite femminili.
La prima amante, di cui si abbia notizia, fu una bella ragazza austriaca, Andrea H., per la quale ammazzò o fece far fuori a pistolettate, il direttore dell’hotel di Selinunte in cui la straniera lavorava quale receptionist, perché la vittima si era lamentata della presenza continua di quel “gruppo di mafiosetti” nella hall.
Quindi Franca A., dalla quale ebbe una figlia, che il boss non ha mai visto (e la ragazza, ormai donna di 27 anni e madre di un piccino, dal canto suo, sembra non abbia alcuna voglia di incontrare tal genitore, reso nonno). Ancora una misteriosa Angela, alla quale scrisse: “Dimenticami. Sono innocente, ma mi dipingeranno come un diavolo, anche se sono tutte falsità”. Infine Maria M., di tre anni più giovane, con la quale progettò di trascorrere un periodo di vacanze in Grecia e con la quale intrattenne un lungo scambio epistolare (le scrisse: “Sei la cosa più bella che ci sia”), come risulta dagli atti delle inchieste. Anche in America Latina avrebbe lasciato uno o più cuori infranti. Perché “i desideri non invecchiano quasi mai con l’età”, cantava Franco Battiato.
Ma ora, ristretto nella cella del carcere di massima sicurezza de L’Aquila, dove è sottoposto al regime duro del 41bis, delle donne almeno dovrà dimenticarsene.
Elio Clero Bertoldi
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