PERUGIA – Ora basta. La misura è colma. Non se ne può più! Sembrerà futile, in questi momenti in cui l’Italia viene flagellata da molti e diversi problemi – economici, sanitari, sociali – affrontare un discorso critico sul linguaggio volgare, triviale dei nostri rappresentanti politici. E forse per questa ragione, anche l’ultima, clamorosa ed incredibile, sortita di un parlamentare che ha urlato, a destra e a manca, epiteti sessisti, scurrili e ingiuriosi alle proprie colleghe istituzionali, non ha attirato – non almeno quanto avrebbe meritato – l’attenzione dei media. Eppure, lo dice il poeta “piccola fiamma gran fuoco seconda”… Come dire: dalle piccole cose possono scaturire enormi ed inarrestabili effetti negativi.
Fino a quando la comunità italiana dovrà sopportare gli sfoghi verbali profanatori e osceni, senza limiti e senza freni (e privi di un minimo di educazione) dei nostri eletti in parlamento, luogo di sacralità laica, che dovrebbe raccogliere le menti, i cuori, le intelligenze, le virtù degli uomini e delle donne migliori e più preparate dell’intera nazione? Da qualche anno, ormai, senatori ed onorevoli (“ma de che?”) non si scontrano più sul piano dialettico, discutendo tesi e antitesi, di ragioni e di torti, di giusto e di sbagliato. Macché! La stragrande maggioranza di lor signori non sa neppure cosa sia la retorica e la costruzione di un discorso, men che meno, l’etica e la morale. Non si sforza neanche, questa maggioranza trinariciuta, non dico di studiare, ma di approfondire. Eppure anche nella nostra storia parlamentare abbiamo potuto contare su molti, e spesso di notevole caratura, autodidatti. E neanche si può ipotizzare che questi parlamentari siano vittime della patologia nota come “la sindrome di Tourette”, malattia che spinge chi ne soffre a ripetere, ossessivamente, parolacce. La densa concentrazione, rispetto alla media nazionale, di questo genere di malati, sarebbe troppo alta. Niente.
Da qualche tempo la moda consiste nell’affrontare l’avversario politico non con la forza dell’intelligenza e col rigore della razionalità, ricorrendo magari all’ironia, ma, più brutalmente, con le offese personali, con le ingiurie più brucianti, reiterando “ad libitum” le diffamazioni e gli oltraggi. Povero Cicerone, misero Demostene e negletta cultura… In questi nostri, dolorosi, tempi vincono – o pensano di prevalere – i tardi epigoni dei carrettieri, dei camalli, dei frequentatori di bettole, dei gaglioffi. Marco Tullio non era certo tenero con i suoi avversari politici e nei processi giudiziari. Tutt’altro. Chiedere a Verre, a Catilina e a Marco Antonio, che si vendicò terribilmente. Ma “Verrine”, Catilinarie” e “Filippiche” venivano costruite e pronunciate sul filo e sul tema di un logico ed elegante ragionamento politico e giuridico. Adesso no. Per zittire la controparte si ricorre, senza remora, ad ingiurie personali pesantissime, feroci e indegne. Neanche si fosse in un’osteria di paese e non nell’agone di massima centralità ed importanza di una nazione di settanta milioni di abitanti, culla di cultura, di arte, di bellezza. Le parole, ha detto qualcuno, sono pietre. E altri assicurano che uccida più la penna (o la lingua), che la spada.
Pensate quale impatto possano causare certe sceneggiate che si consumano nella vetrina del parlamento, sugli adolescenti in formazione e sulle menti più fragili o meno preparate dal punto di vista culturale e dell’educazione. Se certi vergognosi epiteti li possono declamare e sventolare, in pubblico e senza punizioni adeguate, i rappresentanti del popolo negli austeri saloni della Camera e del Senato della Repubblica, perché a cascata non potrebbero permetterseli anche gli studenti nei confronti dei propri insegnanti, i cittadini nei riguardi di sconosciuti passanti, i condomini che bisticciano per il colore dello zerbino col vicino di pianerottolo? L’esempio diventa pessimo e persino virale e può arrivare ad incrinare, pian piano, la stessa tenuta del tessuto sociale. E che dalla virulenza delle parole si possa saltare, direttamente, alla violenza fisica, è storia di ogni giorno. Purtroppo. E allora? Cosa si potrebbe fare per evitare che le “parolacce”, il linguaggio da trivio, si trasformino in uno tsunami capace di travolgere l’intera società civile? Se uno studente avesse rivolto, in aula o comunque alla presenza di più persone, una offesa, tagliente e tranciante, alla propria professoressa o al preside dell’istituto, almeno una volta sarebbe stato cacciato, con ignominia, da tutte le scuole del regno prima e della Repubblica, poi. Ecco, bisognerebbe usare lo stesso metro di giudizio e di censura.
Se un parlamentare, alla Camera o in Senato, sibila termini oltraggiosi e ingiuriosi nei confronti di altri rappresentanti del popolo, deve esser espulso per sempre dal Palazzo. Senza se e senza ma. Al suo posto subentrerà il primo degli eletti del suo partito o movimento. Automaticamente. La democrazia è salva, l’educazione ci guadagna. Non è prevista una norma del genere? La si vari, a tamburo battente. O si lanci un referendum per chiedere al popolo italiano se non sia giusto punire, con questo ostracismo, chi non ha rispetto per l’altro, per la dignità del ruolo, e, soprattutto, per l’istituzione che rappresenta. Lasciare tutto com’è ora significa far compiere – all’istituzione ed al paese – i primi passi verso il caos più totale.
Elio Clero Bertoldi
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