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Vajont, quella tragedia non va dimenticata

di | 2023-09-11T17:39:48+02:00 10-9-2023 5:05|Attualità, Sezione 2|0 Commenti

MILANO – Nella dichiarazione dell’Onu del febbraio 2008, redatta in occasione dell’apertura dell’anno internazionale del pianeta Terra, si legge che il disastro del bacino del Vajont è “un classico esempio delle conseguenze del fallimento di ingegneri e geologi nel comprendere la natura del problema che cercavano di risolvere”. Indubbiamente quella tragedia si sarebbe potuta evitare, ma una valutazione “scellerata” permise che l’onda causata dalla frana del monte Toc travolgesse 1910 persone, tra cui 487 di età inferiore a 15 anni, in 4 minuti la sera del 9 ottobre 1963.

Si tratta del più grave disastro provocato dall’attività umana in tempo di pace e collocabile, secondo Maurizio Reberschak in “Il Grande Vajont” (2013), in un contesto di interventi “forzati” dell’uomo sulla natura ed in un coevo quadro generale caratterizzato da un forte incremento della politica energetica, dalla presenza sempre più massiccia di multinazionali sul mercato, nonché da una diffusa compenetrazione tra parti del potere privato e pubblico, tra imprese private ed istituzioni statali. L’opera di Reberschak, oltre che costituire un valido ausilio per un inquadramento complessivo del caso Vajont, rimane un forte grido d’accusa nei confronti di una strage ormai quasi dimenticata.

Il prossimo 9 ottobre saranno trascorsi sessanta anni da questa immane catastrofe e, secondo la denuncia di Marco Paolini, “Nessuna tv ha programmato di trasmettere il riscritto racconto della tragedia, in occasione del prossimo anniversario. Nessuno sponsor ha accettato di investire per collegare in rete gli oltre cento teatri del Paese che quella sera metteranno in scena il peggior disastro industriale della nostra storia”. Ripercorrere la storia del “grande Vajont”, iniziata agli albori del XX secolo, equivale a tracciare le stazioni di un lungo e drammatico calvario che ha visto immolare vittime innocenti a vantaggio di forti interessi economici supportati da un potere colluso e corrotto che ha manipolato perizie, falsificato atti pubblici, negato o ignorato evidenze fisiche e geologiche.

L’evento, già in sé doloroso, si è inoltre protratto con uno strascico, durato per oltre un quarantennio, di vicende processuali penali e civili. Dopo la tragedia, l’istruttoria si chiuse nel 1968 con la richiesta di rinvio a giudizio dei vertici dell’ex Sade, dell’Enel ed alcuni funzionari dello Stato. La sentenza del processo tenutosi a L’Aquila, dove era stato spostato con sentenza della Corte di Cassazione per motivi di legittima suspicione e per ragioni di ordine pubblico, comminò condanne tra 6 e 3 anni ai tre principali imputati (Alberigo Biadene, direttore del Servizio costruzioni idrauliche della Sade; Curzio Batini, presidente della IV Sezione del Consiglio superiore dei Lavori pubblici; Almo Violin, ingegnere capo del Genio civile di Belluno). Mario Pancini, direttore dei lavori della diga, si era suicidato alla vigilia dell’inizio del processo.

Espletati tutti i gradi di giudizio, nel 1971 in Cassazione le sentenze vennero confermate, con un alleggerimento ulteriore delle posizioni degli imputati; mancavano soli 14 giorni alla prescrizione dei reati. Nel 1971 iniziarono le cause civili promosse dai Comuni; l’Enel mise a disposizione 10 miliardi di lire dell’epoca, ma con la condizione che i superstiti rinunciassero a costituirsi parte civile, quasi tutti accettarono. La Corte d’Appello di Venezia (1999) confermò la sentenza di primo grado, condannando la Montedison SpA a risarcire il Comune di Longarone per i danni materiali e morali patiti dalla comunità. È doveroso riflettere sull’entità delle pene per i responsabili e la ragione quasi si ribella, come a voler rifiutare di calcolare quanto faccia 3 o 4 o 6 anni di reclusione diviso 1910 vittime, perché lacera le coscienze giungere alla conclusione che la vita umana possa valere poche manciate di ore e che la necessità di incremento della produzione di energia possa comportare la cancellazione di un vasto territorio, di intere comunità quali quelle di Erto, Casso, Longarone e di tanti piccoli altri centri scomparsi insieme al loro patrimonio culturale.

I lavori per la diga erano stati avviati in assenza di una valutazione geologica di un territorio dalla particolare fragilità, tanto che la montagna che sovrastava i paesi di Erto e di Casso si chiama Toc e “toc” indica nel dialetto friulano (dalla radice patoc) qualcosa di guasto, di avariato. Tutti gli abitanti erano ben a conoscenza dell’instabilità di quel monte, già segnato in passato da altre frane; gli unici che sembravano ignorarlo erano proprio gli azionisti e dirigenti della SADE (Società Adriatica Di Elettricità) che avevano progettato la diga più alta d’Europa, con la realizzazione di un invaso gigantesco. Una perizia geologica in realtà esisteva, ma era stata predisposta ad arte per consentire di intraprendere un’impresa che altrimenti non sarebbe stata autorizzata.

Tante le colpe, troppi i silenzi, diffuse le connivenze; poche le testate giornalistiche che allora denunciarono le non conformità del progetto e dell’iter amministrativo – burocratico di tutta la vicenda. Tra i pochi “ribelli” del Vajont va ricordato l’ingegner Renzo Desidera, capo del Genio civile di Belluno, che nel luglio 1959 fece chiudere un cantiere abusivo della Sade e per questo fu trasferito, con procedimento immediato. Perseguito parimenti il giornalismo d’inchiesta, come nel caso di Tina Merlin che, portata la questione Vajont alla ribalta nazionale, venne denunciata per diffusione di “notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. Processata, venne poi assolta nel novembre del 1960, tre anni prima che si consumasse la tragedia.

Significativo esempio di saggio/denuncia resta, dopo tanti anni, il suo libro “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe” (1983), la cui lettura è ancora pregna di viva attualità. Lapidaria, quanto esaustiva, l’introduzione: “Resterà un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica. Un connubio che legava strettissimamente, vent’anni fa, quasi tutti gli accademici illustri al potere economico, in questo caso al monopolio elettrico SADE… che a sua volta si serviva del potere politico… La regola era – ed è ancora– come in tutti gli affari vantaggiosi, quella dello scambio. Il monumento si chiama Erto. Anzi, Erto e Casso”.

Oggi, sessanta anni dopo, restano solo le immagini di archivio di quella gigantesca onda di fango desertificante e l’obbligo morale di ricordare chi non c’è più.

Adele Reale

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