MILANO – “Come potevamo noi cantare//…Alle fronde dei salici, per voto, //anche le nostre cetre erano appese”: così Salvatore Quasimodo nel 1944 dichiarava la rinuncia a “fare letteratura” e la scelta del silenzio di fronte all’orrore della guerra, mentre fascisti e nazisti effettuavano rastrellamenti, deportazioni e vietavano di dare sepoltura ai morti che giacevano abbandonati per le strade della città di Milano occupata. Tale forma di sgomento e nel contempo di rispetto oggi sembra dimenticata, mentre quanto avviene quotidianamente nella società italiana pur non essendo in un contesto bellico, dovrebbe indurre tutti ad ammutolirsi almeno per un attimo.
Forme di violenza diffusa colpiscono ormai tutti e coinvolgono indipendentemente dalla fascia d’età o dal livello sociale; dati sempre più in crescita denunciano una grave regressione dei comportamenti e delineano il quadro di una società malata, disgregata in cui una crudele ed immotivata ferocia ed una reiterata infrazione di regole e norme si configurano come fenomeni sistemici e non più episodici. Dall’inizio dell’anno è stata uccisa una donna ogni tre giorni e si registrano 79 femminicidi, di cui la maggior parte avvenuta in ambito familiare; gli incidenti sul lavoro, secondo i dati pubblicati dall’INAIL, riscontrano che da gennaio a luglio 2023 il bilancio drammatico è di 559 vittime di cui 430 in ambiente di lavoro e 129 in itinere, con una media di 80 decessi al mese.
Si potrebbe continuare con una serie lunghissima di altri reati diversi, ma accomunati dalla logica terribilmente simile di una sorta di gioco delle parti che vede prevalere un violento dominatore /nemico che fa soffrire, talvolta sino alla morte, un debole indifeso o ritenuto tale. Quello che lascia maggiormente stupefatti è che tanto orrore venga poi amplificato, sbandierato, documentato con dovizia di particolari al limite del voyeurismo; ha sicuramente del demenziale il fatto che i vari componenti dei “branchi di stupratori” cinicamente filmino le loro violenze e le postino, incuranti non solo della gravità del loro agire, ma scioccamente inconsapevoli che questa “mania di apparire” sarà causa della loro immediata identificazione e incriminazione.
Certo informare è un dovere/diritto sacrosanto, quanto lo è quello di conoscere: le denunce devono dare visibilità ai delitti e voce alle vittime in modo che ne possa scaturire una presa di coscienza generale ed un modo di pensare ed agire finalmente diverso. Accade, tuttavia, che la ricerca dello scoop a tutti i costi finisca col mettere in primo piano i colpevoli, si pensi a quel giornalismo di vari maîtres à penser (??!!) che puntano il dito contro le vittime ree, a loro dire, di comportamenti ritenuti inidonei rispetto a stereotipi dominanti; del resto ha fatto storia la sentenza numero 1636 della Cassazione del 1999 che negò l’esistenza di uno stupro, solo perché la vittima “indossava i jeans”, quindi “un indumento che non si può sfilare nemmeno in parte senza la fattiva collaborazione di chi lo porta”.
Una deriva così drammatica non può essere fermata solo da leggi più severe o dall’intensificazione della sorveglianza sul territorio o men che mai dalla convinzione che armarsi e farsi giustizia da sé, giungendo perfino al linciaggio, possa garantire la propria incolumità. Le risposte non dovranno pertanto prescindere da una rifondazione totale dell’uomo, con investimenti programmati e duraturi nel campo dell’educazione, nella prevenzione e nella tutela dei diritti. Nel suo ultimo lavoro “Insieme si vince” lo psichiatra Vittorino Andreoli esamina alcuni aspetti dell’attualità e, ribadendo la sua posizione all’interno della scuola di pensiero della “neuroplasticità” (o plasticità cerebrale), sottolinea la capacità del cervello di cambiare nel corso della vita sia nel bene che nel male. L’area plastica del cervello è quella da cui scaturiscono pensieri, idee, scelte “tutte le funzioni della mente: dalla comprensione all’astrazione, all’immaginazione, alla creatività”.
Lo studioso ribadisce la sua visione opposta al determinismo di Darwin ed alla legge della selezione naturale del più forte a danno del più debole per la conservazione della specie ed afferma che “invece della lotta si può scegliere la cooperazione”. Una visione positiva che crede nell’uomo e nelle sue facoltà non di distruzione, ma di costruzione; non atte ad uccidere, ma allo stare insieme. L’individuo non può essere ridotto, in una visione darwiniana, ad una macchina che segue l’istinto impresso nella genetica, quel “fatale bisogno della specie a cui appartiene”; egli, sostiene infine Andreoli, non è “centrato” sulla figura del nemico e della guerra, ma al contrario su condizioni che permettano l’amicizia e l’amore, e conclude che “senza educazione, il futuro è fatto di un ritorno al selvaggio”.
Il suo libro invita a riflettere sull’emergenza del presente, formulando una risposta alternativa alla fragilità della condizione umana che ha sempre bisogno di “un altro” da cui ricevere aiuto e, a sua volta, da aiutare; proprio come nel gesto di quel carabiniere che a Lampedusa, terra stremata da sbarchi incontrollati ed oltre ogni possibile capienza, ha abbracciato una bimba intimorita e lontana dalla sua mamma, ancora ferma nell’hotspot, ed è riuscito così a darle coraggio e a farla sorridere.
Adele Reale
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