TODI (Perugia) – La mattina del 26 maggio 1805 Napoleone Bonaparte – già incoronato, il 2 dicembre 1804, imperatore dei francesi in Notre Dame, da Pio VII – assunse nel Duomo di Milano, la corona del regno d’Italia. Nell’una e nell’altra cerimonia a fianco del sovrano uomini della sua guardia e, tra questi, due fratelli di Todi: Giuseppe e Antonio Valentini, arruolatisi fin dai tempi della Campagna d’Italia. La figura di Antonio, in particolare, spiccava: accanto al Córso, piccolo di statura e rotondetto, quel giovane alto più di due metri e dinoccolato, non poteva passare certo inosservato. I due fratelli avevano visto in Napoleone l’uomo dei tempi nuovi, l’alfiere della rottura col passato, il portatore di un vento fresco, del verbo della libertà, dell’uguaglianza, della democrazia, teorizzato e declinato anche con lo spargimento di molto sangue dalla Rivoluzione Francese ed erano partiti volontari, aggregandosi all’esercito francese.
E di sangue anche i due Valentini ne verseranno. Sei mesi dopo l’incoronazione di Napoleone, Giuseppe cadrà sotto il fuoco nemico nella terribile battaglia di Austerlizt (2 dicembre 1805), la vittoria forse più luminosa di Napoleone, nella quale l’imperatore mise in gran luce le sue doti di stratega (Karl Von Clausewitz, teorico di strategia militare -autore del libro “Della Guerra” -, lo incensò per la prontezza, l’acume, la rapidità dei movimenti delle sue truppe che sbaragliarono completamente il nemico). In questa occasione i granatieri a cavallo portarono una carica contro i russi e ne presero prigioniero lo stesso comandante. La Guardia ebbe in totale due ufficiali (fra cui il colonnello Morland dei cacciatori a cavallo) e 22 sottufficiali e soldati uccisi (tra cui Giuseppe Valentini) o mortalmente feriti.
Antonio, nato nel 1775, rimase invece al fianco dell’imperatore in tutte le battaglie, sebbene ferito più volte, fino all’ultimo. Nei giorni della gloria e in quelli della disfatta: a Jena, a Auerstadt, a Eylau, a Friedland, a Wagram. Il suo contributo di sangue più significativo lo versò nella disastrosa campagna di Russia: venne ferito in pieno volto quando i francesi erano ormai in vista di Mosca (nella quale irruppero il 15 settembre 1812) e comparve nella lista dei diciottomila reduci (dei 400mila che avevano preso parte alla infelice spedizione), che salvarono la pelle battuti più dal “generale inverno” (il freddo, la neve, il gelo) che non dai soldati, pure animosi, del generale Kutuzov. Già da anni, a quell’epoca, Valentini risultava ufficiale inferiore (tenente quartiermastro) della Guardia imperiale, unità militare d’élite, creata dall’imperatore. Il quale lo aveva insignito, insieme ad altri suoi camerati, di una medaglia al valore, sulla quale aveva fatto incidere questa frase: “Napoleone ai suoi compagni di gloria”.
Antonio Valentini sembrava l’ombra di Napoleone. Il quale, d’altronde, lo apprezzava per il coraggio, la fedeltà, l’entusiasmo. Forse anche per l’altezza (lui era basso), che lo contraddistingueva tra gli uomini del suo seguito. Mai, in tutti quegli anni, il tenente umbro lasciò il suo comandante, né risulta fosse rientrato a Todi per una visita fugace ai familiari. Inseguiva la gloria sui campi di battaglia in tutta Europa: contro gli austriaci, i prussiani, i russi, gli spagnoli, gli inglesi. Si narra che Napoleone, nei momenti topici degli scontri, ripetesse sempre la stessa frase agli squadroni di cavalleria che militavano con lui: “Caricate, caricate… La vittoria è nostra!”. Valentini, imbevuto di quella mentalità, coltivava quel sogno, sopra ogni altra cosa, seguendo il suo generale in guerra e in pace. Vicino a Napoleone nella storia d’amore con Giuseppina Beauharnais; accanto a lui quando si sposò con Maria Luisa d’Austria; al suo fianco nelle ore della disfatta di Lipsia (ottobre 1813: per tre giorni i 170mila uomini dello stratega tennero testa a lungo a ben 300mila nemici) e spalla a spalla con Napoleone al momento del crollo finale, dopo i cento giorni della speranza, a Waterloo (18 giugno 1815).
Anche in quella circostanza Bonaparte aveva studiato e adottato la tattica giusta, incuneandosi tra i prussiani di Bucher, battuti a Ligny e affrontando, subito dopo, con rapide marce, che erano uno dei sui colpi di genio, gli uomini di Wellington. Gli inglesi, nonostante la tenace resistenza, avrebbero finito per cedere, ma nel frattempo Blucher, con le forze che gli erano rimaste, compì una conversione notturna sul campo di battaglia e fece pendere la bilancia dalla parte delle forze della VII Coalizione. In aggiunta, uno dei generali francesi ritardò, rallentato dal terreno fangoso, il suo arrivo sulla scena dello scontro. Napoleone, battuto, finì nella polvere.
Antonio Valentini, forse, sperava di restare col suo comandante, che aveva espresso l’intenzione e il desiderio – senza tener conto del rancore degli inglesi nei suoi confronti – di andare a vivere negli Stati Uniti, dove pare avesse già fatto acquistare una grande tenuta. Il Corso, invece, venne condotto prigioniero nell’isola di Sant’Elena, al largo delle coste dell’Africa. E Antonio Valentini, tra gli ultimi a staccarsi da lui, rientrò, il 1816, a Todi. Non si può escludere che quando i francesi, entrati in Umbria scacciando i pontifici, crearono il Dipartimento del Trasimeno, con Spoleto prefettura, dunque città leader, la scelta di elevare Todi a sotto prefettura di primo ordine (Perugia era sotto prefettura di secondo ordine), con giurisdizione sui cantoni di Amelia, Orvieto, Ficulle, Baschi, Marsciano e la laziale Acquapendente, portasse lo zampino di un suggerimento del Valentini. I suoi concittadini lo nominarono comandante della Guardia Civica col grado di “maggiore” e lo tennero sempre in grande considerazione, inserendolo tra gli anziani saggi del Comune.
E non fu un casuale che, molti anni più tardi, nell’estate del 1849, quando piombò in Umbria Giuseppe Garibaldi con i suoi quattromila uomini in cammino, dopo la triste fine della Repubblica Romana, per raggiungere Venezia, che ancora resisteva agli austriaci, fosse proprio Valentini ad essere incaricato dalle autorità locali di ricevere e assistere l’eroe dei due mondi e di fornirgli le informazioni e i suggerimenti necessari a controbattere, nell’eventualità che se ne presentasse l’opportunità, le forze nemiche che lo inseguivano. Gli stessi austriaci, sopraggiunti nella cittadina, dopo che Garibaldi se n’era andato, pronti a riprenderne possesso a nome del Papa con un bagno di sangue, furono convinti – tanto nota e rispettata la sua figura – a non usare violenza contro i repubblicani. La guardia del corpo di Napoleone si spense a 83 anni, nel 1858 e le sue spoglie mortali vennero tumulate nella chiesa parrocchiale di Canonica, piccola frazione ad ovest di Todi.
Elio Clero Bertoldi
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