PALERMO – “Nei mari della Luna tuffi non se ne fanno: non c’è una goccia d’acqua, pesci non ce ne stanno… Che magnifico mare per chi non sa nuotare…”. Se, come ci ricorda Gianni Rodari in una delle sue magnifiche filastrocche, sulla Luna non c’è acqua, sulla Terra invece mari e oceani occupano circa il 71% della sua superficie. Ma sino al 5 marzo scorso non esisteva una normativa internazionale per proteggere il loro prezioso ecosistema, di importanza vitale per l’umanità: gli oceani producono infatti la metà dell’ossigeno che respiriamo, rappresentano il 95% della biosfera del pianeta e assorbono circa il 30% di anidride carbonica, limitando il riscaldamento climatico.
Purtroppo il cosiddetto “Alto mare” – quello che si trova oltre 200 miglia nautiche dalle coste, al di fuori delle giurisdizioni nazionali – è stato a lungo trascurato dalla legislazione ambientale. Infatti, finora, nessun governo si era assunto la responsabilità della tutela e della gestione sostenibile delle risorse dell’Alto Mare, il che ha reso quest’ambiente particolarmente vulnerabile, con conseguente perdita di biodiversità e habitat. Secondo gli esperti, tra il 10% e il 15% delle specie marine è già a rischio estinzione, minacciate da inquinamento di ogni tipo, acidificazione delle acque e pesca eccessiva.
Finalmente, dopo circa vent’anni di negoziati, gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno raggiunto un accordo per proteggere gli Oceani: “La nave ha raggiunto la riva”, ha annunciato il 5 marzo scorso Rena Lee, la presidente della Conferenza internazionale sulla biodiversità che ha guidato l’assemblea, nel quartier generale delle Nazioni Unite a New York.
L’intesa, propiziata da una provvidenziale coalizione fra Unione Europea, Stati Uniti, Gran Bretagna e Cina, prevede la protezione di un terzo dei mari entro il 2030, come previsto dall’impegno, tuttavia non vincolante, preso dalla Conferenza dell’Onu sulla biodiversità. È stato comunque formalizzato il quadro giuridico per istituire zone marine protette e preannunciata una Conferenza delle parti (Cop) che si riunirà periodicamente per discutere di biodiversità e governance.
Il trattato, concordato dai Paesi membri, sarà adottato dopo l’esame degli uffici legali e la traduzione nelle sei lingue delle Nazioni Unite (arabo, cinese, inglese, francese, russo e spagnolo) per essere poi ratificato da un numero sufficiente di Paesi. L’intesa è stata una svolta storica decisiva per l’attuazione dell’impegno cosiddetto “30×30” preso alla Conferenza Onu di dicembre scorso sulla biodiversità: proteggere un terzo dei mari (e delle terre) entro il 2030. Senza un trattato, questo obiettivo sarebbe certamente fallito.
Tra i nodi che finora avevano impedito un accordo c’erano la procedura per creare le aree marine protette e il modello per gli studi di impatto ambientale, ma soprattutto la spartizione delle risorse genetiche, come spugne marine, krill (piccoli crostacei), coralli, alghe e batteri, oggetto di crescente attenzione scientifica e commerciale per il loro potenziale uso in medicina e cosmetica.
I Paesi in via di sviluppo, che non hanno i mezzi per finanziare spedizioni e ricerche molto costose, si sono battuti per non essere esclusi dall’accesso a queste risorse e alla fine è passato il principio della condivisione. Con un annuncio considerato come un gesto per rafforzare la fiducia Nord-Sud, l’Unione Europea ha promesso alla conferenza delle Nazioni Unite di New York 40 milioni di euro per facilitare la ratifica del trattato e la sua prima attuazione.
“Questo è un momento storico per la protezione della natura e degli Oceani. Ed è anche un segnale che in un mondo sempre più diviso, la protezione della natura e delle persone può trionfare sui calcoli della geopolitica”, ha dichiarato Laura Meller dell’associazione ambientalista Greenpeace.
Il Trattato è una grande vittoria della diplomazia internazionale che ha coinvolto tutti gli stati membri dell’Onu. E il il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha commentato: “Una vittoria per il multilateralismo e per gli sforzi globali per contrastare le tendenze distruttive che minacciano la salute degli oceani, oggi e per le generazioni a venire”.
Maria D’Asaro
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