PERUGIA – A sessanta anni dalla morte, Marilyn Monroe (1926-1962) torna sulla scena. E lo fa come si conviene ad una diva del suo calibro: con uno scoppiettìo di iniziative. Viene data per imminente la biografia filmata dal titolo “Blonde” (tratta dal lavoro di Joyce Carol Oates) per la regia di Andrew Dominique; Netflix ha appena messo in onda il documentario “I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti”, che pone a fuoco l’ultimo periodo della vita della celebre, quanto sfortunata, attrice attraverso registrazioni ritrovate, riemerse dall’oblio e dunque sconosciute fino ad oggi e, soprattutto, il registra Francois Pomés diffonderà in Francia, tra qualche settimana, sul canale televisivo “Tout l’Histoire”, “Marilyn ed il suo ultimo segreto”, enigma già svelato dalla produzione, in verità. E che cioé l’attrice sia stata figlia di Charles Stanley Gifford.
Marilyn aveva sofferto sempre il rovello, l’angoscia, l’incubo di non sapere chi fosse il suo padre biologico. Ed aveva cercato, invano, di riuscire a scoprirlo. Uno dei tentativi, tutti destinati al fallimento, lo aveva fatto – negli Anni Cinquanta – pure nei riguardi di questo signore. Che, però, non aveva voluto neppure riceverla. Ora Pomés sostiene di aver risolto il giallo. Come? Con l’aiuto della più moderna e sofisticata tecnologia. Ha fatto effettuare gli esami del Dna, affidandoli all’esperto francese di archeologia molecare Ludovic Orlando, sui capelli della diva (recuperati da un collezionista statunitense, John Reznikoff, che li aveva avuti dall’imbalsamatore del corpo dell’attrice). Al test è seguita la comparazione con la saliva dei nipoti del Gifford. Il risultato ha fornito risposte di alta compatibilità. Le fonti assicurano che gli stessi discendenti dell’uomo si siano convinti dei risultati forniti dagli accertamenti peritali.
La madre della diva, Gladys Pearl Monroe (1902-1984) si era sposata due volte: con un certo John Newton Baker, dal quale divorziò dopo pochi mesi e con tale Martin Edward Mortensen, anche in questo caso con una unione di breve respiro. Nel 1925 la donna lavorava in una sala montaggio nello stesso studio cinematografico (la RKO) di Gifford, impiegato del settore vendite. Alla nascita della bimba (1.6.1926) la madre le impose il nome di Norma Jane, aggiungendo i cognomi dei due ex coniugi: Baker e Mortensen. Gifford, infatti, informato da Gladys della gravidanza, aveva subito tagliato i ponti con l’amante: non intendeva avere legami e responsabilità di alcun genere. Evidentemente l’impiegato, che raccontano presentasse una incredibile somiglianza con il grande attore Clark Gable e che era sposato e padre, non aveva inteso riconoscere la piccina, atto che avrebbe messo a rischio la sua immagine ed i suoi stessi legami familiari. Pare, tuttavia, che prima di morire di infarto (nel 1965, tre anni dopo la morte di Marilyn) avesse lasciato intuire e trapelare qualcosa ai propri congiunti.
La piccina, poco dopo la nascita, venne data in affido da Gladys, divorziata e sola, ad una coppia di Hawthorme, cittadina dell’area di Los Angeles, Wayne e Ida Bolender, con i quali la futura star del cinema, visse fino a sette anni. Ritenendo che quelli fossero davvero i suoi genitori. A quella età la madre naturale la riprese con lei, sia pure per breve tempo: poco dopo, infatti, Gladys venne ricoverata in un ospedale psichiatrico. Di quel periodo trascorso con la mamma, Marilyn ricordava un pianoforte bianco, che la donna – anche se nei suoi confronti aveva sempre tenuto un comportamento piuttosto freddo – le suonava, cantando insieme. Tanto che ella stessa, ormai attrice di grido, incaricò un investigatore privato di ritrovare lo strumento e di acquistarlo. Da quel momento se lo tenne sempre accanto. Testimone silente, all’evidenza, di momenti di serenità, di felicità infantile. Una ventina di anni or sono la casa d’aste Christie’s mise in vendita il pianoforte, aggiudicato alla cantante Mariah Carey.
Considerata l’incapacità psichica della madre, le autorità statali nominarono come tutrice di Norma Jane, una cara amica di Gladys, Grace Mckee. Quando quest’ultima divenne la signora Goddard, la bambina fu però mandata dalla coppia in orfanotrofio a Los Angeles, per tre anni, e, successivamente, affidata ad una dozzina di famiglie, in alcune delle quali la ragazzina avrebbe subito persino esperienze brutali e violente. Sballottata qua e là, senza una vera guida, priva di figure di riferimento, probabilmente anche poco o nulla amata, Norma Jane crebbe fragile, insicura, carica di incertezze. Qualche anno dopo, nel 1941, la Mckee la riprese a casa sua. Fu qui che, ad appena sedici anni, Norma Jane, ormai sbocciata nel fisico, conobbe il coetaneo James Dougherty, il primo marito (matrimonio durato quattro anni: divorziarono nel 1946).
Nel frattempo la giovane aveva trovato un lavoro da operaia: impacchettava i paracadute per l’esercito americano. Un fotografo l’immortalò, del tutto casualmente, sul posto di lavoro e la foto capitò, in modo altrettanto fortuito, sul tavolo della direttrice di una agenzia pubblicitaria di Hollywood, Emmelyn Snivelyn. Che segnalò la giovane, di prorompente bellezza, al mondo della celluloide. Il 26 agosto 1946 la ventenne firmava un contratto semestrale con la 20th Century Fox: 75 dollari ogni settimana, il compenso. Scelse proprio in questa occasione il suo nome d’arte: Marilyn (suggerito da un impiegato della Fox) e Monroe (cognome da nubile della madre, che ricordava un presidente Usa, James Monroe).
Dopo essere comparsa in un paio di film (raccomandata da un regista, che sebbene in là con gli anni, si era innamorato pazzamente, non ricambiato, di lei) Marilyn posò nuda, ricevendo per il servizio fotografico 50 dollari di paga. Le foto finirono sulla prima edizione di Playboy, la rivista fondata da Hugh Hefner. La notorietà, se non il successo, cominciava a prendere forma, a concretizzarsi: nel 1951 la Monroe siglò un contratto settennale con la Fox per 750 dollari la settimana. Convolò a nozze, nel 1954, col giocatore di baseball Joseph Paul “Joe” Di Maggio (1914-1999), dal quale si divise perché lui, gelosissimo, non aveva gradito la famosa scena in cui Marilyn compariva con le gonne alzate fino alla vita da un soffio di vento malandrino; subito dopo si innamorò, coniugandosi ufficialmente nel 1956, col commediografo Arthur Miller: un intellettuale col quale non aveva nulla da condividere, che era molto più anziano di lei ed al quale l’attrice versava – finché non si separarono – i soldi persino per gli alimenti della ex consorte.
Il corpo perfetto – che catturava fan in tutto il mondo – nascondeva, agli occhi degli altri, una fragilità psichica (eredità materna?), una debolezza caratteriale, una personalità instabile, un umore labile, che alla fine presero il sopravvento. E la trascinarono in un gorgo fatale. Nel 1961, ormai dipendente dall’alcool e dagli psicofarmaci, si ricoverò volontariamente in una clinica psichiatrica. D’altronde, durante tutta la sua carriera si era sottoposta a psicanalisi con diversi professionisti per cercare di superare i suoi irrisolti problemi mentali: Margaret Herz Hoenberg, Anna Freud (figlia di Sigmund, padre della psicanalisi), Marianne Rie Kris, Milton Wexler, Ralph S. Greeson (di cui si vociferava fosse stata addirittura amante). Ma la sua stella tanto potente sugli schermi cinematografici, quanto inconsistente nella vita reale, era entrata in fase di collasso: Marilyn venne trovata morta nella sua casa di Brentwood (Los Angeles). Intorno a lei, tra le lenzuola sfatte, scatole vuote di sonniferi e medicinali, bottiglie di liquori. Aveva appena 36 anni.
A scoprire il cadavere, la mattina del 5 agosto 1962, lo psicanalista della diva, Greenson, allertato dalla governante, Eunice Murray, che non riusciva ad entrare nella camera, chiusa a chiave dall’interno, dell’appartamento dell’attrice, in Fifth Helena Drive, al numero 12305. Nel frattempo era arrivato anche il medico Hyman Engelberg. La polizia incaricò delle indagini il tenente Robert E. Byron, anche se il primo investigatore ad intervenire sulla scena del delitto era stato il sergente Clark Clemmons. Marilyn era stata trovata a pancia in giù, sul letto, nuda ma coperta da un lenzuolo. In una mano stringeva la cornetta del telefono. La versione ufficiale certificò il suicidio per l’ingestione di 47 compresse di Pentobarbital, assunte insieme ad una quantità indeterminata di idrato di coralio (sostanza chimica utilizzata per favorire il sonno). Solo pochi mesi prima Marilyn aveva cantato, in pubblico – e le immagini avevano fatto il giro del mondo – per il compleanno del presidente John F. Kennedy, col quale – oltre che col fratello Robert – avrebbe allacciato una relazione sentimentale.
Sulla morte di Marilyn – straordinariamente bella, famosa, ricca, con una vita piena se non tumultuosa – sorsero molte ipotesi (omicidio ad opera della mafia, dei servizi segreti e di altri personaggi), sebbene l’autopsia del dottor Thomas Nogushi, anatomo-patologo di fama, avesse certificato che, con alta probabilità, si fosse trattato di un suicidio. E venti anni più tardi (nel 1982) una indagine del procuratore generale della contea di Los Angeles, avesse concluso come non fosse emerso, dall’attività investigativa, alcun genere di complotto dietro la tragica, dolorosa fine della vamp. Fu Di Maggio, forse l’unico che avesse amato davvero, e profondamente, Marilyn, a farsi carico dei funerali dell’ex moglie. E per venti anni, per tre volte alla settimana, fece confezionare e deporre un mazzo di rose rosse (una dozzina) sulla tomba di lei al Westwood Village Memorial Park Cemetery.
La gloria del mondo passa così.
Elio Clero Bertoldi
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