RIETI – Meglio una vita più semplice ma serena che una vita brillante, ma piena di pericoli: è la morale della favola di Esopo “Topo di campagna e topo di città”. I due topini si scambiarono il posto, ma alla fine si accorsero che ognuno stava bene nel proprio luogo di nascita: il topo di campagna preferì mangiare meno e non aver sempre paura di essere cacciato e ucciso, l’altro era abituato a scamparla, pur di satollarsi nelle cucine opulente. Io sono un topo di città, sono nata e cresciuta a Roma, poi ho deciso di cambiare vita per trasferirmi in un piccolo paese sul lago del Salto. Della città rimpiango solo la metropolitana e gli autobus sotto casa: sono diventata pian piano un topo di campagna. Ci sono condomini in una città in cui non ci si conosce: esci la mattina per andare al lavoro, rientri la sera stanco, ognuno è chiuso nella sua scatola di cemento. Se devi andare negli uffici pubblici perdi un’intera mattinata e se sbagli sportello o ufficio sono guai.
La prima sensazione piacevole che ho avuto dopo essermi trasferita è stata proprio riuscire a fare tutto in poco tempo: visite mediche, spese, pagamenti, documenti senza file chilometriche e senza traffico. Non me ne vogliano i reatini, ma quando li sento lamentarsi del traffico sorrido ancora oggi. In un piccolo paese ci si conosce, magari anche troppo, ma non essendo più giovane e avendo un bagaglio di esperienza di vita, non mi preoccupo di pettegolezzi o chiacchere che nei paesi sono inevitabili come la frase ricorrente “a chi sì figlio tu?”. A me non la fanno, perché qui non ho parenti (né vicini, né lontani) ma so che se ho bisogno di aiuto nessuno si tira indietro. Ho scelto di rinunciare ad alcune comodità, per non essere schiava del consumismo e respirare aria pulita. Me ne accorsi un giorno in cui ci fu un lungo blackout: in un condominio metropolitano (almeno in quello dove abitavo a Ostia) senza corrente non ti scaldi e se sei ai piani alti, anche l’acqua viene meno, perché le pompe non funzionano e quando manca l’acqua dove vai?
In paese c’è ancora il fontanile, a Roma i vecchi “nasoni” (le fontanelle) sono sempre più introvabili e mi sono ben preoccupata, appena trasferita, di montare subito la classica vecchia stufa economica a legna: cucino e mi riscaldo. Mi piace raccogliere legna nel bosco, anche se ogni anno qualche decina di quintali si devono accatastare e la fatica c’è. Ma è fatica salutare, almeno finché si hanno le forze. Mi piace andar per erbe, funghi, fragoline, more e il periodo di lockdown in mezzo alla natura è stato meno pesante, vero è anche che gli studenti nelle città hanno avuto meno problemi con la didattica a distanza, perché non hanno difficoltà di connessione: nelle aree interne il “digital divide” si sente ancora forte. Se nelle aree interne si aumentassero i servizi, le città sarebbero più vivibili e si ripopolerebbero i piccoli paesi che sono la nostra vera ricchezza, con un patrimonio non solo di biodiversità, ma anche immobiliare, ora in stato di abbandono.
La mia scelta è stata maturata e costruita negli anni, dopo aver lavorato e versato contributi pensionistici. I giovani che qui sono nati fanno il percorso inverso, cercano il lavoro (che oggi non c’è) nelle grandi città o all’estero e non sanno cosa significhi sentirsi come Fantozzi che corre l’ultimo metro per timbrare il cartellino in orario e le regole delle multinazionali in cui non sempre il merito viene premiato. Qualcuno oggi capisce che la vera ricchezza sta nel proprio appezzamento di terreno, nel saper potare, allevare e i fondi europei dei Piani di Sviluppo Rurale andrebbero meglio sfruttati. Mi dispiace non aver avuto nonni dal sapere antico: loro si sarebbero saputi arrangiare comunque e ovunque. Chi è vissuto in mezzo alla tecnologia, scopre alla fine che i computer non si mangiano.
Qui ho scoperto il valore della civiltà contadina, grande ammortizzatore sociale fino agli anni ’60: nessuno era lasciato solo. Ci si aiutava l’un l’altro quando era tempo di mietitura, gli anziani restavano in casa ed erano accuditi fino alla morte. Qui ho scoperto il valore delle tradizioni, dei balli, delle feste di paese, dell’onore di essere scelti come festaroli, ho scoperto il significato del suono delle campane, che un tempo scandiva il lavoro nei campi.
Ho avuto l’onore di conoscere centenari e di raccogliere le loro storie, come si viveva e come ci si arrangiava, ho visto donne anziane lavare ancora i panni alla fontana del paese nel mese di gennaio, rompendo il ghiaccio, pur avendo la lavatrice in casa, ho scoperto il valore sociale della “fonte”, quando le ragazze andavano con la conca a prendere l’acqua, si scambiavano confidenze e i ragazzi approfittavano per “rimorchiare”, timidamente come si faceva una volta. Ho ascoltato i racconti di quando le ragazze lavavano i panni sulle pietre lisce di fiumi e torrenti mentre pascevano un piccolo gregge di famiglia, i racconti dei “biscini” (i piccoli di sei anni), che venivano iniziati alla pastorizia e come erano rigidi e severi i pastori. Una vita difficile, ma forse più serena di oggi.
Nel villaggio di Cartore ho conosciuto Eusebio Di Carlo, classe 1916, mezzadro in quella che oggi è la Riserva della Duchessa. Era un piacere ascoltarlo: “Per arare i terreni, anche quelli di alta quota o scomodi, si utilizzavano le vacche. Noi arrivammo ad averne due perfettamente domate, cosa che rappresentava un vero lusso, perché era possibile alternarle nel lavoro”. Non è facile domare una vacca, bisogna che qualcuno te lo insegni e oggi nessuno lo sa fare più: “Io ho appreso da mio nonno la tecnica necessaria. Nella mia vita ne ho ammansite talmente tante che, se le avessi tutte, sarei il proprietario del Comune di Borgorose…Un vecchio di Cartore mi aveva insegnato a seminare e da sempre seguo la tecnica dei paletti per indicare le passate, poi avanzo contando i passi: è una questione di ritmo, ogni passo un lancio, prima a sinistra poi a destra, con cadenza sempre uguale, per centinaia e centinaia di volte… Gli attrezzi che servivano bisognava costruirseli, non c’era nessuno che te li dava e i nostri aratri erano di legno, magari col puntale protetto da un pezzo di lamiera. Fu un mio lontano parente ad insegnarmi come costruirli…Normalmente usavo il faggio, più leggero della quercia”. Eusebio partecipò alla campagna di Albania come alpino, ritornò con un piccolo gruzzolo con cui comprò delle pecore, la sua storia è raccontata nel libro “Io, la fame e l’accetta” pubblicato con il contributo del comune di Borgorose e della Riserva della Duchessa, con i racconti raccolti da Settimio Adriani, Daniele Alicicco, Lodovica Fabiani, Valentina Fasciolo, Vincenzo Ruscitti.
“Siamo sicuri che stiamo progredendo – diceva Umberto Eco – o invece stiamo andando a passo di gambero?”. Vale la pena concludere così
Francesca Sammarco
Mi identifico perfettamente, stesso tipo di scelte, stessa ricerca della naturalità