PALERMO – Con “The old oak”, uscito nelle sale italiane il 26 novembre scorso, l’ottantasettenne Ken Loach rivolge al suo pubblico, se non un vero e proprio commiato, un appello etico estremo e accorato.
Chi ha visto i precedenti lavori di Loach, percepisce infatti in questo film (il 28° del regista britannico, girato ancora una volta in collaborazione con lo sceneggiatore Paul Laverty) una cifra espressiva diversa, meno combattiva, più malinconica e dolente. Certo, anche in quest’ultima pellicola c’è la denuncia per le diseguaglianze sociali, lo sguardo attento verso gli ultimi e gli emarginati, l’analisi puntuale di temi quali il razzismo, i pregiudizi, gli assurdi conflitti di interesse tra i poveri. Pur non arretrando quindi di un passo rispetto alle sue posizioni, qui però il regista assume lo sguardo mite, silenzioso e attento di TJ Ballantain, proprietario di un pub piuttosto malmesso – il cui nome è, appunto, “The old oak” (La vecchia quercia) – che si trova in un piccolo comune in declino, a due passi dal mare, nella contea di Durham, vicino a Newcastle, un tempo zona di miniere.
Quando in paese arriva un gruppo di profughi siriani che alloggeranno in vecchie case ormai abbandonate, un abitante, urtato dal fatto che sta scattando delle foto, scaraventa a terra, danneggiandola, la macchina fotografica di una ragazza siriana, Yara. Mosso a compassione, TJ gliela fa riparare e stringe con Yara, che parla inglese ed è appassionata di fotografia, un profondo legame di amicizia.
Andando oltre l’opposizione sorda e tenace degli abituali frequentatori del pub, TJ e Yara rimettono in sesto il retrobottega del pub con l’aiuto dei sindacati e della chiesa locale, per offrire pasti gratuiti sia ai siriani che agli abitanti del luogo che se la passano male. Ripetono così l’esperienza già fatta in paese negli anni ‘80, ai tempi delle lotte contro la politica della Tatcher, quando si preparavano insieme i pasti per i lavoratori in sciopero e le loro famiglie. La vicenda avrà poi un’evoluzione che ovviamente qui non si racconta.
Pur essendo una fan del cinema di denuncia sociale di Loach, la scrivente ritiene che, da un punto di vista meramente artistico, “The old oak” abbia un limite: è troppo esplicito e didascalico. La morale del film è dichiarata in modo troppo palese attraverso i dialoghi tra i protagonisti – piuttosto scontati e prevedibili – anziché desumersi dalla loro evoluzione psicologica o dalle vicende narrate.
Ciò nonostante, il film rimane limpido e potente. Come le altre pellicole di Ken Loach, si tratta di un film ‘necessario’ che, seppure con una narrazione ‘didattica’, mostra con chiarezza l’assurdità dei pregiudizi dettati da paura e ignoranza, l’insensatezza della chiusura del cuore alle necessità degli altri, il vicolo cieco dell’odio e della violenza sui più deboli, spesso solo frutto di rabbia e di questioni personali irrisolte.
Anche in “The old oak”, Loach non si stanca di ripetere tra le righe che oggi si è vittime di un sistema economico che stritola i meno garantiti e rende tutti un po’ naufraghi, senza un porto sicuro.
Le parole pronunciate da Yara (“Ci vuole coraggio per sperare… Ma se smetto di sperare il mio cuore smette di battere… E io, quando guardo attraverso questa fotocamera, scelgo di vedere qualche speranza”) fanno parte del messaggio finale consegnato agli spettatori. Ken Loach ci esorta quindi ad abbandonare la strada vecchia della rabbia, dell’indifferenza, della paura per camminare insieme lungo la via maestra della misericordia e della solidarietà, coltivando sempre, nonostante tutto, semi di speranza. Per rimanere umani.
Maria D’Asaro
Il commento finale sembra fatto apposta per chi ieri sera è rientrato da un viaggio in Armenia. Dovremmo renderci conto un po di dove siamo.