NAPOLI – Tutta la vita è attesa. L’attesa si traduce in quello che pensiamo, nelle nostre idee, nelle nostre concezioni di bene, nei nostri desideri. Il tempo dell’Avvento è per eccellenza il tempo dell’attesa; lo viviamo, come spesso accade, in maniera distratta. C’è chi lo vive con fede, chi invece ne avverte addirittura un fastidio. Ma cosa è e cosa c’entra questa attesa? Attesa di che, di chi? E perché tanto clamore o forse, che è più esatto, perché tanto silenzio e tanta indifferenza? L’avvento suggerisce una presa di coscienza, una ricerca. Suggerisce che il desiderio di un bene bisogna cercarlo, desiderarlo, bisogna che ci si ponga quanto meno in una posizione tale da poterlo riconoscere. Tutto questo trova forme e aspetti inesorabilmente variegati.
C’è chi aspetta la luce e chi, ahimè, le luci; c’è chi attende una risposta e chi desidera una tranquillità, che è anch’essa occasione di presa di coscienza, di un “fare il punto”. Il Cristianesimo è una storia fatta di uomini che attendono instancabilmente una cosa più grande, una felicità, un compimento… Un significato del tempo, nel tempo, il significato della felicità stessa, il significato della vita, il perché delle cose.
Perciò, la vigilanza è il tema che la Chiesa pone in capo al nostro nuovo anno di vita, come senso dell’imminenza della Sua venuta, come – perciò – attesa e desiderio di cogliere un nesso tra ciò che si vive e il perché si vive. Tale ricerca ha un fine: quello di non essere superficiali e fatui perché la nostra esistenza non può essere meno di così, ma spesso vive meno di così, molto meno di così. Ma si può essere vigilanti anche se non si crede? Certo è che non si può essere in attesa di qualcosa o qualcuno se manca il fondamento di tale posizione, se manca un’oggettiva motivazione a tale posizione.
Perché porsi un problema se tale problema non c’è? Del resto che senso ha porsi il problema, che senso ha fare un’autocoscienza? E di cosa poi? E perché? Appare sempre più evidente una confusione tra ciò che realmente rappresenta questa attesa con ciò che è frutto di una bella, dolce, straordinaria fantasia. Il problema sembra proprio questo: riuscire a scorgere una verità che permane da 2000 anni dentro un marasma di buonismo dagli effetti psichedelici. Un groviglio di buoni propositi, assolutamente apprezzati e apprezzabili ma che poco hanno a che fare con la concretezza, con la “durabilità”, con la verità dell’Avvento.
A Napoli si dice “nun ce pensà” nel senso di suggerire uno stato di permanenza in un atteggiamento di superficialità verso tutto e tutti. Inutile porre domande sulla vita, sul senso della vita, meglio andare a vento… Giussani suggerisce: “Ma ciò che costruisce l’umanità non è ciò che le mani dell’uomo costruiscono, non ciò che il pensiero immagina e cerca di realizzare; il significato per cui il mondo si accosta, s’avvicina, s’approssima a un disegno mirabile e buono si attua attraverso la dedizione nostra al Senso di tutto.”
E allora se tutto non dipende anzitutto da te ed è possibile per te, in fondo, l’unica cosa che uno può fare è semplicissima: è riconoscere e accettare quantomeno quello che siamo. Questa, in fondo, è ciò che viene definito atto di umiltà. Siamo niente: niente come creature ma paradossalmente eterni, immensi. Niente quando non riflettiamo l’eternità che portiamo.
L’unica possibilità che l’uomo ragionevolmente ha è questa attesa che è essenzialmente una presa di coscienza di ciò di cui siamo fatti. Un’attesa per riconoscere che è solo un’illusione se riusciamo a gestire la vita, la nostra vita. Forse possiamo organizzarci al massimo una spesa o un viaggio. Poco altro. Ma l’attesa è anche accettare l’inatteso, l’imprevisto, un bene insperato. Questa accettazione è già l’inizio di un nuovo modo di guardarsi e guardare la realtà.
Innocenzo Calzone
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