NUORO – “Su Zurrette” o sanguinaccio salato è una specialità culinaria tipica della Barbagia e del centro Sardegna. È un piatto dai sapori forti, particolare, che si prepara utilizzando il sangue della pecora o dell’agnello condito con timo, mentuccia, pane carasau e pecorino cotto dentro allo stomaco dell’animale. Dopo il “porcetto”, tipico piatto isolano conosciuto in tutto il mondo, “Su Zurrette” è il secondo piatto gustoso e più amato che ha conquistato i palati anche dei turisti più riottosi ai cibi strani e dai sapori molto sostenuti. Lo si associa alla festa di San Francesco di Lula cui i nuoresi e le persone dell’hinterland sono molto devote. La tradizione vuole, infatti, che dopo il pellegrinaggio a piedi, compiuto in piena notte partendo dalla città di Nuoro, dalla piazza antistante la chiesa del Rosario, ai viandanti e ai viaggiatori giunti al santuario verso l’alba, i priori offrivano zucchero, caffè, biscotti, “Su filindeu” e “Su zurrette”.
Il sanguinaccio viene cotto alla brace o bollito e il contenuto dello stomaco mangiato accompagnato da pane carasau e buon vino rosso da pasto. Le ricette per prepararlo variano da zona a zona. Mia madre, ad esempio, lo preparava in questo modo. Dopo aver fatto sciogliere del lardo in un padellino con del burro o dello strutto, univa in una ciotola il sangue della pecora o dell’agnello, la cipolla tritata, il pane carasau a pezzetti, il lardo fuso, le foglie di menta spezzettate, il timo selvatico e il pecorino grattugiato. Il tutto veniva mescolato bene per amalgamare tutti i sapori e gli odori. Operazione importante, per togliere il gusto della terra e dell’erba, era lavare lo stomaco della pecora o dell’agnello con l’acqua e l’aceto, sciacquarlo bene, inciderlo con un coltellino senza romperlo e farcirlo con il ripieno preparato.
Per evitare la fuoriuscita del composto l’estremità dello stomaco veniva ricucita. Mia madre portava a bollore l’acqua, quindi immergeva la sacca e la lasciava cuocere a coperchio chiuso per circa 20 minuti. A questo punto toglieva il sanguinaccio dal fuoco e dopo aver delicatamente massaggiato lo stomaco per evitare la formazione dei grumi, rimetteva in pentola “Su Zurrette” dall’altro verso e lo faceva cuocere per altri 20 minuti. Pronto il tutto, disponeva lo stomaco su un tagliere in sughero al centro della tavola e dopo che mio padre l’aveva inciso con “Sa Lesoria” detta anche “Leppa”, il tipico coltello a serramanico sardo, ognuno di noi ne disponeva cucchiaiate sui fogli di pane carasau e lo mangiava di vero gusto.
Questo piatto ha tradizioni lontane ed è legato alle origini agropastorali della nostra terra. Come dice Giovanni Fancello, docente ed esperto di storia della gastronomia sarda, cucinare dentro allo stomaco degli animali è una tradizione che si perde nell’era dei tempi. Era un uso praticato dai Fenici, dagli Assiri e dai Babilonesi e ai tempi di Omero le viscere degli animali venivano riempite di sangue, grasso e cotte sul fuoco. Cuocere le interiora sul fuoco, e poi mangiarle, era considerato un atto sacro nella Grecia pagana. Era come fare un pasto con gli dei. Anticamente nessun animale poteva essere ucciso per essere mangiato se non dopo averlo sacrificato agli dei, che dovevano essere nutriti dagli uomini. L’uomo, dopo ogni sacrificio, aspettava un segno magico, un responso da parte degli dei, perché si credeva che l’impurità degli uomini venisse trasferita sull’animale sacrificato. Il dio veniva nutrito principalmente con interiora e sangue cotti sulla fiamma viva. Il sangue infatti era considerato il liquido che racchiudeva la vita e l’anima.
Qualunque sia la storia legata alle sue origini non si può negare che “Su Zurrette” sia comunque un piatto da leccarsi i baffi.
Virginia Mariane
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