“La ragazza non immaginava che anche quello fosse l’amore in mezzo all’erba, lei tremava, sentiva addosso ancora l’odore. Chissà chi era. cosa voleva perché ha ucciso i miei pensieri, chissà se un giorno potrò scordare e ritornare quella di ieri” : così intonava Luca Barbarossa in una discussa canzone presentata al Festival di Sanremo nel 1988. Una scelta coraggiosa, inusuale per trattare un tema difficile, un testo semplice e profondo che, cullato dal ritmo lento delle note, scosse parecchie coscienze e si fissò in modo indelebile nella mente di molti italiani e anche in quella di chi scrive. Parole che presero a turbinare, a squarciare tabù e resistenze su una tematica spesso consegnata solo alle cronache dei quotidiani locali o alle denunce, rare in verità, presso qualche caserma.
Eppure la violenza sessuale era un fenomeno antico, diffuso e persino tollerato dalla legge fino al 1981: un uomo poteva rapire una ragazza per sposarla, poteva violentarla e poteva anche farla franca se ricorreva al matrimonio riparatore. La ragazza in tutto ciò era meno che niente, un vaso che chiunque poteva rompere purché poi si assumesse l’onere di raccoglierne i pezzi. Lo stupro non era considerato reato contro la persona, ma contro la morale pubblica. Una legge troglodita, retaggio di una società sessista e patriarcale dove la donna era proprietà esclusiva dell’uomo, una nullità, un corpo per ricevere e dare figli, maschi preferibilmente. In caso contrario bastava ripudiare. Ripudiata fu Emengarda da Carlo Magno, il quale dopo averla tenuta per un anno come regina, trovandola clinica ed inabile a menar prole la lasciò per contrarre un nuovo matrimonio. Ripudiata fu anche Soraya dallo scià di Persia. Peggior sorte toccó alle mogli di Enrico VIII, ree di non aver saputo dare l’agognato erede maschio.
I tempi cambiano, le leggi pure. Nel 1996, in Italia, lo stupro è finalmente ascritto a reato contro la persona, punibile con il carcere. Eppure la pena non scoraggia gli uomini che, da soli e in branco, spesso si macchiano di questo orribile misfatto, che deturpa il corpo e uccide l’animo. E se ieri la violenza sessuale era taciuta per paura del disonore, oggi non lo è quasi più. Franca Viola ne è stata indiscussa paladina: lei non solo non acconsentì a sposare l’uomo che l’aveva rapita e abusata ma lo denunciò, sostenendo il peso dei processi, delle accuse e dei pregiudizi dell’Italia intera.
E per quanto se ne parli in televisione, sui giornali, sui social il fenomeno non si arresta, anzi sembra avere una recrudescenza. Fiumi di parole o immagini scorrono davanti ai nostri occhi, si infrangono nelle nostre orecchie diventando quasi prive di significato, mute: donne violentate, deturpate, uccise… spesso da mani amiche. Nomi che presto diventeranno un ricordo sfocato: Veronica, Lorena, Desirée giusto per ricordare le ultime, le cui vite sono state mutilate e, in alcuni casi, miseramente troncate. Quale sarà la pena per i loro aggressori? Quali le attenuanti? Si spera in una condanna esemplare che restituisca giustizia alle vittime dopo quella shock del tribunale irlandese che ha assolto uno stupratore ventisettenne perché la ragazza indossava il perizoma di pizzo e come tale era provocante e provocatrice.
Paradossalmente, qualche anno fa in Italia un uomo era stato prosciolto in primo grado dall’accusa di stupro perché la ragazza indossava i jeans che senza la sua collaborazione non potevano essere sfilati. Dunque c’è il rischio di rimanere sempre impuniti perché la donna è troppo o troppo poco vestita. Il discorso sulla violenza contro le donne, sul femminicidio è lungo, complicato e non basta una giornata, il 25 novembre, dedicata alla tematica, a risolvere questo buco nero della società. Occorrerebbe una rivoluzione, non di armi o di bastoni, ma di pensiero e di visione, che possa finalmente radicare il concetto che la violenza è un atto gratuito, sconclusionato che ammorba chi la fa e ancor più chi la riceve.
Tania Barcellona
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