ROMA – Quando uscì sembrò una canzone d’amore, invece era il canto di dolore di un popolo esule. Per anni il capolavoro di Sergio Endrigo “Io che amo solo te”, anno 1962, lato A di un 45 giri, fu interpretato come una dichiarazione a una donna, alla stregua di tutta la produzione di moda in quel momento e, infatti, come tale divenne un successo, una innovazione nel panorama musicale italiano per il quale divenne un modello, poi un classico. Per questo il bellissimo pezzo fu reinterpretato da famosissime cantanti italiane, come Orietta Berti, Ornella Vanoni, Fiorella Mannoia e persino Mina.
Chi ha provato nel tempo a spiegarne il significato non è mai andato oltre l’unica tematica del momento, forse trita e ritrita sebbene bellissima, ma nel testo di questo artista raffinato e discreto, quasi misterioso, c’è una storia su cui la politica ufficiale ha calato, volontariamente, il silenzio. E’ la storia di una diaspora di cui non si è mai voluto parlare ma che, ancora oggi, riguarda migliaia di italiani dell’Istria che si sono sparsi per il mondo per scampare ad un genocidio. Fu, questa, la conseguenza disastrosa di una delle tante guerre che, quando si concludono, spostano confini e creano nuovi Stati senza tenere conto della cultura, della lingua, della religione e delle tradizioni, degli affetti e, sì, anche, dei beni delle persone che vivono su quei territori con un nuovo padrone.
Accadde negli anni ’90 nei paesi balcanici, accade ancora oggi ai Curdi. Una storia simile è quella del conflitto israelo-palestinese. Questo successe in Istria, una penisola che si estende nel Golfo di Trieste come un pollice, una terra di confine come tale sempre oggetto di contesa durante i due conflitti mondiali. L’Istria era territorio italiano dal 26 aprile 1915 e la sua popolazione resistette con coraggio all’occupazione nazista alla fine della seconda guerra mondiale. Purtroppo la sua “liberazione” dall’oppressore tedesco da parte dell’esercito comunista jugoslavo agli ordini del maresciallo Tito fu, di fatto, una nuova occupazione. Con il trattato di Parigi del 1947, infatti, l’Istria fu assegnata al dittatore rosso che iniziò contro la popolazione locale una politica vessatoria, persecutoria, di cui i massacri delle “Foibe” furono solo il culmine.
Si parla di un numero esorbitante di persone (dai 3000 ai 5000 inermi), che morirono in questo eccidio mentre altre, per sopravvivere, abbandonarono la loro terra cercando di salvarsi da una morte certa o, in alternativa, una vita impossibile. Di questo esilio parla nel suo spettacolo Simone Cristicchi, cantautore, attore teatrale che da anni porta in tour il suo spettacolo su questo capitolo di storia – “Esodo”- che non si è mai trovato sui libri né alcun docente ne parla a scuola o all’università, se non in qualche citazione incomprensibile e generica. Cristicchi, invece, nei teatri italiani tiene una lezione durissima da digerire, che non può lasciare fraintendimenti su quello che è successo dopo quel funesto 1947. L’artista in un monologo che è come un pugno nello stomaco soprattutto per chi arriva davanti al palcoscenico per assistere, pregiudizievolmente, ad uno spettacolo di parte. Sì, insomma,“fascista”.
Un pregiudizio che l’artista ha dovuto combattere sin dagli esordi di questo spettacolo, ma che riesce a smontare ogni volta che si chiude il sipario. Cristicchi snocciola nomi e luoghi, scende nei particolari, mostra filmati d’epoca, interpreta la parte dei testimoni che si salvarono dalle foibe (le cavità carsiche dentro le quali furono gettate migliaia di vittime), e di quelli che vi morirono, descrive l’odore di sangue e di morte, l’orrore e la paura di quel popolo perseguitato che scelse di lasciare tutto e andare via, senza un futuro davanti, spesso trovandosi in una vita fatta di stenti o in un’altra persecuzione. “Non è difficile immaginare quale fosse il loro stato d’animo – esordisce Cristicchi sul palco – con quale e quanta sofferenza intere famiglie impacchettarono le loro cose lasciandosi alle spalle le case, le città, le radici”.
Cercavano salvezza ma non ebbero accoglienza in una Italia che, appena uscita dal regime fascista, non poteva ammettere che quei fratelli italiani stavano scappando dal comunismo, di cui era troppo pesante dover ammettere la brutalità. Gli esuli furono perseguitati anche in Italia, tacciati di essere fascisti, abbandonati senza aiuti, rinchiusi in ex campi di lavoro quando non in manicomio. Molti non ce la fecero, altri che ce la fecero continuarono il viaggio verso l’America o l’Australia disperdendo una comunità paziente e dignitosa che ancora attende non tanto una vendetta quanto un risarcimento morale. Attende che tutto quel che successe sia noto e che ogni vittima di quell’eccidio – Ferdinando esule di Pola, il postino Domenico, Norma seviziata e gettata in una foiba, Marinella morta di freddo ad un anno in un campo profughi – possa riposare finalmente in pace senza la vergogna di un’accusa ingiusta: di essere oppositori di quella sinistra che in Italia stava emergendo dopo l’orrore del nazismo.
Tra gli esuli istriani c’erano molti personaggi e artisti poi divenuti famosi in Italia. Personaggi affascinanti, misteriosi, che sembravano conservare un segreto di cui non parlarono mai. Cristicchi li cita tutti: la splendida Alida Valli, il violinista Uto Ughi, l’attrice Laura Antonelli, il pugile Nino Benvenuti e poi lui, Sergio Endrigo. Cristicchi sul palco fa il nome del cantante e poi prende la chitarra, intona il brano e chiede al pubblico di cantare con lui mentre, meravigliosamente, una platea di tutte le età mostra di conoscere quelle parole, ormai impresse come un karma nella coscienza nazionale:
“C’è gente che ha avuto mille cose,
Tutto il bene, tutto il male del mondo.
Io ho avuto solo te
E non ti perderò,
Non ti lascerò
Per cercare nuove avventure”
E’ il momento in cui in teatro, in ogni teatro d’Italia dove si svolge il tour, il pregiudizio crolla e compaiono i lucciconi sugli occhi degli spettatori. Quella era sì una canzone d’amore e anche di nostalgia ma non solo per una donna. Soprattutto per un paese che l’esule non avrebbe rivisto più. “Li chiamavano fascisti, erano italiani”, dice Cristicchi, che per portare in scena questo lavoro ha fatto lunghi studi, visitato luoghi e cercato documenti. Al termine di ogni spettacolo l’emozione è fortissima ma il cuore è più leggero per aver fatto spazio alla verità. Il pubblico si alza in piedi in un’ovazione che non termina mai mentre l’artista, dopo l’ennesima denuncia pubblica in giro per l’Italia, scompare dietro le quinte.
Gloria Zarletti
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