“Quando, un giorno, qualcuno vi chiederà se giornalisti si nasce o si diventa, non dite mai che giornalisti si nasce. Perché giornalisti si diventa giorno per giorno, imparando una cosa al giorno“. Boato e applausi in un’antica aula dell’Università di Urbino. Correva l’anno 1991, mese di aprile o giù di lì. Era la prima lezione del corso di preparazione agli esami per diventare giornalista professionista e un signore di una certa età, piccolo di statura ma dotato di uno straordinario carisma, aveva lentamente scalato i gradoni fino ad arrivare proprio in cima, costringendo così i suoi “alunni” a girarsi completamente per poterlo guardare. Mentre pronunciava quelle parole (che sono rimaste indelebili nella mente e nel cuore di chi scrive) agitava l’indice, quasi indicandoci uno ad uno.
Sergio Lepri se ne è andato qualche giorno fa all’età di 102 anni. Toscano, anzi fiorentino, nell’animo e nelle espressioni: talvolta un po’ burbero, sempre schietto e diretto “perchè a me lettore non interessa come la pensa o chi vota chi ha scritto l’articolo: a me interessa solamente capire ciò che vuole dire“. E’ scomparso un grande giornalista, non a caso direttore dell’Agenzia Ansa per ben 28 anni (dal 1962 al 1990): uno che ha insegnato il mestiere a migliaia di persone, imponendo sin dal primo momento regole chiare e semplici. Ecco, le caratteristiche essenziali e non negoziabili di ogni “pezzo” devono sempre essere semplicità e chiarezza. Quindi, la notizia nelle primissime righe con la risposta immediata a cinque domande: chi, che cosa, dove, quando e perché (tutte parole che in inglese cominciano per “w” e dunque la cosiddetta “regola delle 5 w”).
Poi l’uso di un linguaggio piano, comprensibile a tutti: “Chiunque – soleva ripetere – deve comprendere ciò che scrivete: dal laureato a chi sa soltanto leggere e scrivere. Dalla nonnina della Valsugana al bracciante della Valle dei Templi. Tutti“. Con la conseguenza che è severamente vietata l’utilizzazione di paroloni o di termini stranieri, sebbene molti di essi siano entrati nel linguaggio comune e siano perfettamente conosciuti, forse anche più del corrispondente vocabolo italiano. “Chi si bea della sua cultura – aggiungeva Sergio Lepri – e ne fa sfoggio continuo con i lettori o interlocutori, è soltanto un grandissimo ignorante“. C’è qualcosa da aggiungere?
E ancora: la verità. Già, perché se si scrive il vero, non ci sono paure o timori di sorta. L’editore di ogni giornalista è il lettore al quale bisogna dire semplicemente come stanno o come sono andate le cose. Non retroscena o spiate o sussurri: la cronaca nuda e cruda di un qualunque avvenimento. E’ evidente che molto spesso questo non accade. Soprattutto dovrebbero impararlo i tanti, troppi “giornalisti per caso” che, solo perché hanno conquistato (chissà come…) il “tesserino”, pensano di sapere tutto e si improvvisano persino direttori responsabili di improbabili siti che pomposamente vengono definiti “voci per ampliare l’offerta informativa”. Ma quando mai… Questi (molto) presunti organi di informazione vivono di comunicati (peraltro spesso scritti anche male), di “copiaeincolla”, di “favori” verso il potente di turno che potrebbe garantire qualche spicciolo di pubblicità.
Sergio Lepri li ha svergognati in vita perché lui, laureato in filosofia, era diventato “giornalista per contribuire alla libertà e alla democrazia in Italia” e continuerà a rivoltarsi nella tomba di fronte all’insipienza, all’incapacità e alla presunzione (“ciuccio e presuntuoso”, si usa dire soprattutto al Sud) di gente che, spesso, nella vita fa altro e vive e si crea una pensione con un altro lavoro, quello “vero”. Utilizzando il giornalismo solo per esibire una condizione che in realtà non merita e non dovrebbe avere.
Giornalisti non si nasce, è sacrosanto; ma è altrettanto vero che giornalisti si diventa solo se ci si applica, si impara, si fa tesoro degli errori… Troppo complicato per molti.
Riposa in pace, Sergio, e soprattutto grazie per tutto quello che ci hai insegnato.
Buona domenica.
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