ROMA – Nei tempi di disordine sociale come quelli che stiamo vivendo, quando i ruoli e il loro rispetto sono messi in dubbio da direttive sempre più farraginose e incerte e chi sta ai vertici è sempre pronto a redarguire chi è in posizione subalterna, mi è capitato di rileggere un’opera di Josè Saramago, dal titolo “Il racconto dell’isola sconosciuta”. Il libricino, un gioiello di sole 49 pagine che già dalla copertina sembra destinato ai più piccoli, è in realtà molto apprezzato dagli adulti per il suo messaggio chiaro e manifesto, gioioso e malinconico allo stesso tempo: che è inutile cercare la felicità lontano perché a volte ce l’abbiamo a portata di mano, ma non siamo sufficientemente attenti per accorgerci di essa.
Ebbene, scorrendo voracemente il volumetto come succede con tutti i libri dello scrittore portoghese scomparso nel 2010, premio Nobel per la letteratura nel 1998, già nelle prime pagine mi è sembrato di scorgere un nuovo messaggio, forse più potente di quello più manifesto, che ha dato notorietà al raccontino. Parlo di un messaggio nascosto tra le parole, le battute, i sottintesi con cui il Maestro ha dato vita a questa storiella simbolica. Non trovo questo significato nelle recensioni numerosissime che ne sono state scritte ma mi è apparso – probabilmente per i tempi che corrono – lampante e chiaro e, soprattutto, educativo, umano. Si tratta dell’idea di assertività, una qualità, una dote di cui oggi si parla molto ma che forse nella letteratura è poco presente o viene chiamata in altro modo. Forse autorevolezza, o coraggio.
Il protagonista del racconto, dunque, non è solo l’uomo che passa la vita a cercare la felicità su “un’isola sconosciuta” e poi scopre che essa stava proprio là dove si trovava lui, ma è anche l’eroe che, come in tutte le fiabe, sconfigge il cattivo. E qui il cattivo è il re, un re sciocco che passa il tempo, simbolicamente, a ricevere ossequi. Un re con la sua corona, il suo cerimoniale, l’etichetta, la prosopopea, l’alterigia, tutti attributi che spaventano e allontanano i sudditi ma non lui, l’eroe, capace di “smontare” il potente, “annullarne” la superiorità sociale, che si fa beffa dei titoli e dei ruoli per difendere il suo desiderio: quello di avere una barca. E siccome lui questo desiderio lo ritiene legittimo, lo difende strenuamente, ad ogni costo. Si presenta alla reggia e non si vergogna di chiedere un’audizione davanti al sovrano. Ma come? Lui che non è nessuno ha l’ardire di presentarsi al sovrano? Si. Infischiandosene dell’etichetta e del cerimoniale, semplicemente affidandosi alla propria schiettezza, all’innocenza di chi ha la coscienza pulita (e che, si badi bene, non è ingenuità), il protagonista “osa” chiedere qualcosa al re, che ci ricorda tanto – a chi non è capitato? – i boriosi che si fanno forti della domanda: “Lei non sa chi sono io”.
Al nostro eroe non interessa fare discussioni e va avanti per la sua strada. Nel raccontino non è lui che sta a disagio ma il re stesso, disorientato e in difficoltà di fronte a questo tipo senza titoli né presentazioni, senza un nome altisonante ma che “senza battere ciglio e con notevole audacia” lo ha mandato a chiamare. Per fare cosa? Per questo: chiedergli una barca. Eccolo il vero messaggio, il più efficace al di là del finale romanticamente poetico e d’effetto. La carta vincente del protagonista di Saramago è la mancanza di una strategia. Lui si gioca la fiducia in se stesso, in un se stesso privo di schermature, apparenze, maschere e capace di esprimere desideri. Le strategie sono roba per chi non ha carattere ma che ha bisogno di imporsi per il solo gusto di farlo. Chi è assertivo non ha bisogno, invece, di prevaricare o sfoggiare titoli, né di ricordare agli altri chi è. Semplicemente, è.
Grazie, Saramago.
Gloria Zarletti
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