ROMA – “Dove non mi hai portata” (Einaudi, 2022) è il racconto di un’epoca, di un ambiente violento, di una vita di dolore e di stenti da cui una madre è riuscita a tenere lontana la figlia compiendo un gesto apparentemente orribile: l’ha abbandonata. Questo libro, finalista al premio Strega, si dispiega in tanti rivoli ma prima di tutto ha un merito: aiutare a spazzare via ogni facile pregiudizio su chi rinuncia a crescere figli appena nati. I commenti il più delle volte sono leggeri ma dietro un abbandono si possono nascondere situazioni terribili, insostenibili, e Maria Grazia Calandrone, con questa coraggiosa prova, ne ha dato una testimonianza non solo sconvolgente ma soprattutto vera perché vissuta sulla propria pelle.
Con una penna potente, l’autrice compie un viaggio a ritroso verso la consapevolezza di se stessa, ritrova la propria identità, ricostruisce un nucleo familiare di cui non sapeva nulla ma soprattutto rende giustizia ai genitori biologici. Oltre a questo, indaga nelle pieghe della società e del cuore: ne esce una delle tante storie di un’epoca, di quelle non scritte sui libri ma che sono, come nel romanzo di Elsa Morante che qui risuona, le vere protagoniste della “Storia”. Il risultato è la “summa” dei tempi: una ricostruzione di un fatto di cronaca; un’indagine sociologica e culturale dell’Italia degli anni ’60, decennio precedente al femminismo; la ricongiunzione ideale ai suoi veri genitori cui restituisce dignità e rispetto. Un atto d’amore insito in ogni singola parola che l’autrice, poetessa di professione, usa con cura per descrivere luoghi, angoli, ambienti, persone, sensazioni.
Il risultato è uno scossone emotivo, di quelli che poche letture di autori contemporanei possono provocare. La vicenda inizia a Palata, paesino del sud ancora non riscattato dall’ignoranza, tra le plebi ignare del boom economico del dopoguerra. La protagonista è Lucia, una ragazza che, come tante ai suoi tempi, viene costretta a sposarsi con un uomo che non ama e a sopportare i maltrattamenti di lui e dei suoi genitori, con cui convive in una angusta abitazione di pochi metri quadri. La giovane non ci sta a sopportare quella vita e si innamora di un forestiero, uomo maturo e navigato ma sensibile, anche lui sposato, e ne rimane incinta. Ostracizzati dalla comunità e perseguitati dalle leggi dell’epoca sull’adulterio, i due fuggono a Milano e si esclissano dai parenti e dalle autorità ma, dopo la nascita di Maria Grazia, capiscono che sopravvivere nella clandestinità, senza lavoro nè aiuti, non è possibile. Così decidono di suicidarsi ma, come la scrittrice riuscirà poi a ricostruire con una vera e propria indagine giornalistica, prima di farlo “organizzano” per la figlioletta di otto mesi, un abbandono che le possa garantire un futuro migliore di quello che avrebbe avuto con loro.
Calandrone fa risalire la lucidità nel compiere quell’atto, spesso sbrigativamente attribuito a madri sconsiderate, al dantesco “intelletto d’amore” che antepone l’oggetto amato a se stessi. La figlioletta, infatti, viene adagiata in un prato di Villa Borghese, a Roma, dopo aver segnalato il fatto con una lettera a “L’Unità”. La divulgazione della notizia, inviata dai due prima di togliersi la vita gettandosi nel Tevere, rende famosa Maria Grazia che, così, riesce a non passare per una dei tantissimi trovatelli della capitale. Al contrario, la bambina ha poi un percorso privilegiato per quei tempi: questo è ciò che l’autrice chiama intelletto d’amore. E il futuro descritto da lei stessa nelle varie interviste, è il “Dove non mi hai portata” che ha dato il titolo al libro. Quel “dove” è stata la vita di Maria Grazia Calandrone, poi adottata da una famiglia che l’ha amata e che le ha permesso di stare lontana dalla subcultura della Palata degli anni ’60, con il suo retaggio di un patriarcato atavico e poche speranze di riscatto.
L’autrice oggi è una poetessa affermata, scrittrice, drammaturga, artista, una donna riuscita e appagata. Probabilmente la sua passione per le parole, che lei stessa definisce “ossessiva”, è stato il viatico attraverso il quale sublimare, trasformandolo in poesia, un passato per lei non del tutto chiaro fino a quando non ha deciso di andarci a fondo e non solo di conoscerlo ma anche di raccontarlo pubblicamente. Un’opera coraggiosissima, un monumento alla forza dell’amore dal quale è stata concepita, alla storia della povera gente che scompare dietro le notizie ufficiali e dà la sua vita per cambiare la mentalità. Ma soprattutto è un monumento all’eterno femminino di sua madre, sopravvissuto all’oppressione di un ambiente retrogrado e brutale. Lucia esce da questa lettura come una antesignana del femminismo che di lì a pochi anni avrebbe cambiato il destino di tante donne ma, purtroppo, non ha fatto in tempo a cambiare il suo. A distanza di mezzo secolo è stato il potere salvifico delle parole di Maria Grazia a renderle giustizia e a onorarla insieme a chi, con lo stesso suo intelletto d’amore, sceglie di rinunciare ad un figlio per dargli un’alternativa.
Gloria Zarletti
Nell’immagine di copertina, Maria Grazia Calandrone finalista del Premio Strega con il romanzo “Dove non mi hai portata”
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