NAPOLI – Ma il fine educativo della scuola qual è? Oggi, paradossalmente, rispetto al passato la scuola entra sempre di meno in rapporto con l’alunno. Come si diceva qualche tempo fa “il male della scuola non è la bocciatura, ma la non-promozione”. I docenti non sbagliano quando non bocciano, ma quando non promuovono veramente, forse pensando di avere a che fare con teste dure (con problematiche generiche legate alla provenienza familiare o al contesto sociale) e non con persone. Quando si promuove per levarsi di torno un problema e per non affrontarlo realmente. Quindi, come dire, tu alunno sei promosso scolasticamente ma, nella vita, il problema resta tuo.
Dato per certo che la selezione non è lo scopo della scuola, bensì quello di “fornire allo studente gli strumenti culturali e metodologici per una comprensione approfondita della realtà”, come recita il profilo culturale, educativo e professionale della scuola, occorre dire che all’esito infausto dello scrutinio si giunge spesso per un malinteso concetto di libertà, per cui allo studente è consentito talvolta di non impegnarsi (“Sono fatti suoi”) e all’insegnante di non compiere i passi necessari per aggredire l’insuccesso dell’allievo alla sua radice (“Deve capire che ha sbagliato scuola e in ogni caso io docente non sono tenuto a salvarlo ad ogni costo” oppure “E’ lui che deve capire…”).
In questo modo la bocciatura è una medaglia con due facce: l’impreparazione dell’alunno e l’impotenza dell’insegnante. Bocciature e alti tassi di dispersione scolastica sono sintomi di sistemi scolastici protesi più all’esclusione che all’inclusione. Promuovere: ecco la mission di una scuola che si pensa e si organizza come luogo e tempo della persona e per la persona; una scuola dove l’insegnante si pone con tutta la sua vivacità umana ed esige che anche gli studenti ci siano con la testa e il cuore.
La differenza tra una scuola che boccia e una che promuove è tra il docente neutrale, che vive la sua professione da funzionario statale, e l’insegnante capace di condividere e produrre segni efficaci di apprendimento. È l’insegnante che si pone come persona e tratta gli alunni come persone, cioè pratica la personalizzazione.
Il tentativo che purtroppo si sta facendo nella scuola odierna non è tanto quello di garantire un percorso personalizzato allo studente, quanto quello di giustificare l’entrata nella scuola di associazioni che, troppo spesso, con la scuola stessa, non hanno niente a che fare. È una questione di personalizzazione mancata?
Personalizzare è pro-muovere: “agire con” (non solo “per”) questo alunno, fino al punto di cooperare, come del resto è suo dovere professionale, con gli altri docenti e i genitori perché l’alunno sia continuamente pro-vocato all’azione e possa dire “io ci sono”.
In verità, molto spesso, nella teoria e nella pratica del “fare scuola”, viene “bocciata” proprio la persona, le cui dimensioni sono respinte o negate sia nella globalità dei suoi fattori sia nella concretezza dei suoi elementi, perché vengono percepite e riproposte secondo logiche quantitative, economicistiche, burocratiche.
Il lavoro da farsi, che è durissimo, sicuramente il più duro, è entrare in rapporto, entrare in un rapporto umano. Condividere, coesistere, rapportarsi. Ma questo, pur nella sua durezza, se fatto con lo scopo per cui la scuola esiste, è un altro mondo. Questo, per esempio, comporta che l’insegnante abbia uno sguardo e viva la consapevolezza che non ha davanti delle teste di legno, ma persone che, anche quando indossano la maschera dell’indifferenza, soffrono in realtà la fame e la sete di un significato.
Innocenzo Calzone
Nella foto di copertina, i “famigerati” quadri
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