PERUGIA – Il suo nome, oggi, non dice nulla se non agli studiosi ed agli appassionati di storia. Ma ai suoi tempi, cioè alla fine del primo secolo dC, Flavio Scorpo (Flavius Scorpus), di professione auriga, godeva di una fama e accumulava guadagni al livello, e forse più, di quanto non incassino ai giorni nostri i grandi assi dello sport come Cristiano Ronaldo, James LeBron, Lewis Hamilton, tanto per citarne alcuni. E le donne andavano pazze per i campioni come lui. Non solo le plebee, ma anche le matrone di rango imperiale si gettavano ai loro piedi e alcune s’infilavano, persino, nei loro letti. Come succedeva anche ad altri campioni, gladiatori o atleti che fossero.
D’altro canto le corse dei carri venivano considerate tra i più antichi e seguiti spettacoli della “Città eterna”. Sarebbe stato Romolo ad indire le prime corse dei carri in occasione dei Consuali, dedicati al dio Conso, insieme a gare di cavalli, di muli, di atleti a piedi. E anche in tarda epoca imperiale questi “ludi” continuavano ad essere ritenuti una sorta di rito magico-religioso con tanto di processione iniziale (“pompa circense”). Di Scorpo parla l’epigrammista Marco Valerio Marziale e il suo nome viene citato in una famosa epigrafe ritrovata ad Urbino e si trova scolpito pure in diverse epigrafi di varie località. Tanta la fama acquisita. Raccontano le fonti che per ogni vittoria l’auriga si portasse a casa, oltre la palma e la corona di alloro simboli della vittoria, ben 15 sacchetti d’oro. E lui tagliò il traguardo per primo ben 2.048 volte, stabilendo un record incredibile ed ineguagliabile (Diocle, altro auriga di grido, vinse 1.462 e guadagnò 35 milioni di sesterzi; di Lacerta, pure lui “cocchiere”, un poeta sostiene che avesse messo insieme un patrimonio pari a quello di cento avvocati).
Questo schiavo proveniente dalla penisola Iberica ebbe la fortuna di guadagnarsi, ancora piccolo, le simpatie di un allenatore di cavalli e di aurighi. Questi ultimi dovevano svolgere una preparazione particolarissima per ottenere forza fisica sulle gambe, soprattutto ed essere capaci di mantenere l’equilibrio sul carro, molto instabile. Scorpo cominciò a gareggiare all’età di 8-10 anni. Sui carri restare mutilati o perdere la vita rappresentava un pericolo immanente e continuo: il veicolo poteva ribaltarsi specialmente in curva; le scorrettezze degli avversari (urti e frustate) risultavano una costante; il mozzo (di legno di olmo) o la ruota (col frassino venivano costruiti i raggi) potevano spaccarsi o subire sabotaggi, con conseguente rovinìo del carro, come nel mito greco di Ippodamìa ed Enomao.
Gli aurighi, quale misura di sicurezza (relativa), si legavano le briglie di cuoio ai fianchi e infilavano alla cintola una sorta di roncola o comunque una lama per tagliare, all’occorrenza, i legacci e saltare giù con prontezza, prima di venire travolti rovinosamente. A sottolineare la pericolosità di questa disciplina, un bassorilievo ospitato nel Museo archeologico Pergamo a Berlino “fotografa” un auriga caduto e schiacciato da una quadriga di un team avversario. Il pubblico, forse anche per provare, anzi vivere, il brivido del pericolo, si assiepava numerosissimo sulle tribune e organizzava un tifo d’inferno, tanto che non mancavano le risse, persino cruente, tra fazioni rivali (bianchi, rossi, azzurri e verdi; sotto Domiziano furono introdotte anche la purpurea e la dorata, ma alla morte dell’ultimo dei Flavi questi due colori vennero eliminati).
Gli esperti assicurano che le quadrighe, lanciate, potevano sfiorare anche la velocità di 50km orari e che ogni gara si sviluppava su diversi giri di arena per circa sette chilometri. La partenza dei concorrenti avveniva all’unisono con meccanismo automatico che non offriva vantaggi ad alcuno dei dodici carri, tanti se ne schieravano alla partenza, in genere tre per ognuna delle fazioni concorrenti. Il sistema era abbastanza simile, forse persino più preciso, a quello del Palio di Siena. In tutto l’impero romano (ma pure nella tarda repubblica) non solo a Roma, le corse dei carri richiamavano folle di spettatori chiassosi e di accaniti scommettitori. Al Museo del Bardo di Tunisi è esposto un enorme, splendido mosaico che rappresenta una gara di carri da corsa. I romani avevano a disposizione il circo Massimo, il più grande (poteva contenere più di 150mila spettatori) il Trigario, il Flaminio, il Vaticano, il Variano ed ancora uno sull’Appia, uno a Boville, un altro sulla Portuense. In una giornata si potevano disputare anche trenta-quaranta corse, intervallate da altri spettacoli per non causare tempi morti e non far annoiare i presenti appollaiati sugli spalti.
I costruttori dei veicoli cercavano di continuo di rendere più leggere e più aerodinamiche le strutture (né più né meno di come agiscono gli ingegneri di oggi per i bolidi di F1) e gli allenatori di cavalli giravano incessantemente in tutte le terre conosciute alla ricerca spasmodica degli animali più veloci, più possenti, più resistenti. Le fonti dicono che i cavalli migliori, i berberi, provenissero dal Nord Africa, ma apprezzati risultavano anche i destrieri spagnoli. Ci sono pervenuti persino i nomi dei corsieri di un paio di quadrighe di Scorpo: Ingenuo, Admeto, Passerino, Atneto, la prima e Pegaso, Elate, Andragno, Cotino, la seconda. L’auriga dei primati visse all’epoca dei Flavi e per lui tifava appassionatamente l’imperatore Domiziano. La fortuna – al di là della bravura, dell’astuzia e della classe con la quale Scorpo guidava i suoi cavalli – lo baciò a lungo. Coi soldi guadagnati si era comprato la libertà, ma pare abbia continuato a gareggiare (agli uomini liberi era vietato partecipare alle corse, ma le deroghe non mancavano, se anche Nerone volle partecipare all’agone).
Purtroppo Scorpo morì giovane, a soli 27 anni. Non è noto come, ma è probabile in un incidente durante la corsa. Recita Marziale: “O Roma, io sono Scorpo, gloria del tuo circo rumoroso, l’oggetto del tuo applauso, il tuo favorito sia pure di breve durata. L’invidiosa Lachesi, quando mi interruppe nel mio ventisettesimo anno, mi giudicò vecchio considerando forse il numero delle mie vittorie”.
Elio Clero Bertoldi
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