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Saviani punta il dito sugli intellettualoidi

di | 2021-06-20T10:49:45+02:00 20-6-2021 6:30|Cultura, Sezione 7|0 Commenti

ROMA – Incertezza, distanza, convalescenza, esperienza. Sono queste le parole con cui deve fare i conti il filosofo, rendendosi “perennemente indisponibile” ad ogni potere costituito, ad ogni dogma. Negli ultimi tempi, però, si è diffuso tra certi intellettuali il “vizio” di propinare una personale verità, quasi in un tentativo di “catechizzare” la platea che richiama quella “tentazione di Siracusa”, individuata da Jacques Derrida nel nesso tra politica e filosofia, e che consiste nel pretendere di saper dare una spiegazione a tutto. Approfondisce, insieme a molti altri temi, questa questione il filosofo e scrittore Lucio Saviani, noto esponente dell’ermeneutica, che recentemente ha pubblicato L’esercizio della filosofia (ed. Moretti e Vitali, Bergamo), che contiene anche una piacevole disquisizione su tutte le cattive abitudini che durante la pandemia hanno portato certi pensatori, già alle prese con una narcisistica crisi di identità, non proprio alla deriva ma quasi.

Il volume consta di una prima parte in cui l’incertezza è il fil rouge che inanella e anticipa gli altri temi con cui l’autore delinea la sua idea della filosofia come esercizio e ricerca continui, a patto che di filosofia si stia parlando e non di altro. Perché, a dire il vero, il problema cui lui accenna nel libro è proprio qui: nel rischio che il pensiero si “normalizzi” diventando un sistema chiuso quando essa deve invece servire allo scopo contrario, ossia ad aprire le menti. Alla costruzione del discorso Saviani giunge con il suo lavoro di riflessione ma anche chiamando a sostegno pensatori di tutti i tempi come Socrate, Jankélévitch, Hadot, Nietzsche, Heidegger, Gadamer. E poi, molto poeticamente, cita il mito.

Nella seconda parte, in cui il riferimento all’attualità è più evidente, spicca “Ironia e scompiglio”, un capitoletto in cui, rifacendosi a Vladimir Jankélévitch, Saviani ricorda tra il serio e l’ironico che lo caratterizzano da sempre – ma stavolta con stilettate e chiari riferimenti al presente – la solitudine del filosofo che ha scelto di non allinearsi alla politica e di non accettarne etichette. La figura del saggio, così,  si configura, anzi si deve configurare, come un elemento di disturbo per la società che è suo dovere etico destabilizzare e dove deve creare, appunto, quello scompiglio che sia di stimolo per la ricerca perenne di un equilibrio. Saviani ricorda che la filosofia è una scelta di vita e come tale impone, come lo impose a Socrate, di stare ai margini con un gruppetto di adepti disposti a sperimentare, “Sospendendo e spostando – scrive – soprattutto in tempi di crisi”. Non a caso l’opera esce al termine di un periodo di incubazione corrispondente proprio ad una crisi, la pandemia, in cui esperti e scienziati pronti ad impartire la loro lezione, specialmente in tv, sono stati onnipresenti in una sorta di “turismo filosofico”.

Saviani non lo dice apertamente ma che la sua critica si rivolga a loro è lampante. Per definirli lo scrittore si rifà a Corinne Maier che nel suo profetico pamphlet “Intellettualoidi di tutto il mondo, unitevi!” (2007), già parlava di un fenomeno che sarebbe poi degenerato con l’emergenza sanitaria. “L’intellettualoide sarebbe la versione trash dell’intellettuale – osserva la Maier – cioè la banalizzazione e volgarizzazione di un ruolo dapprima riservato a pochi eletti e ora diventato di massa, l’intellettuale prét à porter, democratico se vogliamo, alla portata di tutti, in grado di mettere insieme bei discorsi vuoti farciti di frasi fatte e parole difficili, di esprimere pareri su tutto e su tutti stando comodamente seduto sulla poltrona di uno studio televisivo”. Attraverso citazioni e richiami, è un ritratto abbastanza riconoscibile quello che Lucio Saviani dipinge di certi personaggi di grido.

Lucio Saviani con Pasquale Panella

Perché tutto sia ben chiaro l’autore usa come sempre l’ermeneutica: gli serve per scavare il significato originario delle parole e spiegare, per esempio, che la figura oggi tanto di moda dell’esperto (da ex pereor; passo attraverso e quindi mi trasformo),  dovrebbe corrispondere a chi è consapevole di non  sapere, non a chi ha una risposta per ogni occasione.  L’esperto non ha verità da raccontare ma solo dubbi da sciogliere. Se non fosse così la sua conoscenza sarebbe dogmatica, ossia l’esatto contrario della filosofia.  E allora cosa ci hanno raccontato i cosiddetti “esperti” in questo anno di pandemia, tutte le sere? Il libro di Saviani, su tutte le “verità” proclamate a proposito di virus, vaccini, complotti e cure un po’ di dubbi li insinua. “La filosofia non deve dare certezze ma va esercitata – sottolinea – attraverso un modo di vivere e di comunicare che non ha niente a che fare con certi talk show e trasmissioni televisive ”. Un Saviani preciso e diretto, rinnovato per certi aspetti ma sempre garbato, quello che emerge dalla sua ultima fatica, e che sa dire le cose come stanno così: sorridendo. Però le dice. Lo fa come mai prima d’ora, forse più consapevole di avere una responsabilità etica verso gli uditori e di non rivolgersi solo ad una nicchia di accademici.

Con quest’opera, che lo rappresenta molto impegnato civilmente, l’autore completa la trilogia iniziata con Ludus Mundi e Voci di confine, che ha occupato l’ultimo decennio trascorso tra conferenze, saggi, incontri e tanto, tanto studio. Non estranea all’approccio dell’autore verso la filosofia e la società è sicuramente l’incontro, attraverso una sua traduzione, con l’ironia di Vladimir Jankélévitch. Nel tempo del contagio, la distanza, la convalescenza e l’incertezza, parole chiave dell’opera e tutte collegate tra loro indissolubilmente, hanno conferito a Saviani l’ “esperienza”,  completando il cerchio. “Sì – ammette lui – il libro è il risultato di un percorso di riflessione e mia personale declinazione e interpretazione del pensiero debole”. E quindi il ruolo dei saggi oggi qual è? “Quello di stimolare lo spirito critico, mantenere viva la spinta alla conoscenza e soprattutto non dare risposte ma porre domande, aprire varchi nei luoghi della cultura, nelle piazze, nelle strade e uscire da quegli studi, televisivi e non, dove l’intellettuale promotore di se stesso diventa una caricatura del filosofo ma non lo rappresenta, anzi, lo svilisce”.

Il libro si conclude con il poemetto “Orfeo, un cantante” dell’amico di sempre Pasquale Panella, paroliere, scrittore e poeta, ma soprattutto compagno inseparabile di Saviani nel suo cammino decennale attraverso e dentro le parole che in questi anni hanno sviscerato insieme. La dedica, oltre che a lui, è alla moglie dell’autore, Ružena Hálová che, con discreta saggezza, contribuisce ogni giorno a impreziosire l’impegnativo esercizio della filosofia.

Gloria Zarletti

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