LEONFORTE (Enna) – I lavori per la realizzazione degli altari di San Giuseppe iniziano già il primo venerdì del mese di marzo: le donne cominciano a pulire i ceci, a schiacciare le mandorle per il torrone e le fave per il “macco” con una maestria tale che ogni fava, ogni mandorla rimane integra. L’intera giornata trascorre lavorando ininterrottamente e con molta pazienza; ma il tempo quasi vola sentendo i racconti e ascoltando preghiere e canti in dialetto sulla storia di san Giuseppe.
È l’alba di un giorno del mese di marzo, una settimana prima del 19, giorno della festa. Flotte di uomini partono con centinaia di sacchi vuoti in direzione delle colline dei monti Erei in cerca delle verdure selvatiche necessarie per allestire l’altare e dar da mangiare a coloro che faranno visita alle case in cui è stata preparata la tavolata: si tratta di finocchi e cardi che, dopo essere stati puliti e bolliti, verranno fritti nella giornata del 17 in modo da poter essere gustati la sera successiva insieme alle sfinge. Per lavarli si fa ricorso anche all’acqua fresca e pura che scorre dai “cannoli” della maestosa fontana del paese la Granfonte (in basso).
Dall’11 al 17 si preparano le cuddure, vere e proprie sculture di pane con le quali viene spiegato il significato dell’antico e del nuovo testamento. Ogni altare deve avere minimo tre cuddure, quella di san Giuseppe, quella della Madonna e quella di Gesù, fino a un massimo di 33, a seconda del numero dei Santi a cui è offerta la tavolata, ma sempre in numero dispari. Tutte hanno alcune decorazioni comuni come ad esempio la pera, la mela, l’uva, il carciofo; ognuna, poi, ha decorazioni tipiche che raccontano la vita di ogni santo: la cuddura di san Giuseppe ha tutti gli attrezzi da falegname, un bastone, una campana e un angelo; nella cuddura della Madonna vi è una mano con un anello nuziale, una rosa, una foglia di erba amara e la corona del rosario; nella cuddura di Gesù, invece, ci sono tre chiodi, una corona di spine, la tenaglia e il martello, una croce con la scritta INRI, una scala e un lenzuolo.
L’allestimento dell’altare inizia anche nella settimana precedente la festa con la preparazione del “cielo”: una copertura fatta di veli e pizzi che sovrasta la tavolata come fosse una corona. Viene scelta la camera più spaziosa della casa, a volte si sacrifica la camera da letto o il salone. Anche in questo caso c’è bisogno di tanto aiuto e per SanGiusé nessuno dice di no. Tutto il quartiere è operativo, donne, uomini e bambini non risparmiano le forze affinché tutto sia pronto per le 12 del 18 marzo, momento in cui l’altare, colmo di pane e di altri beni alimentari, sarà benedetto dal sacerdote. Da questo momento in poi potrà cominciare la processione dei visitatori che proseguirà per tutta la notte e fino al mattino successivo. Chi visita un altare rimane estasiato: la tavola, apparecchiata con candide tovaglie, presenta al centro tre scalini dove vengono sistemati i bicchieri, le posate e i piattini con dentro tre spicchi d’arancia non completamente separati a simboleggiare l’Unità della Santissima Trinità. Tutti ricevono un “pupiddu”, il pane simbolo di vita e di morte preparato nei giorni precedenti e nessuno deve dire grazie dopo averlo ricevuto ma, semplicemente, deve fare gli auguri ai padroni di casa che hanno realizzato l’altare per grazia ricevuta o per devozione al Patriarca Giuseppe.
Alle 12 del giorno successivo i “santi”, impersonificati da ragazzi, prendono posto a tavola per la “cena”: dopo la lavanda dei piedi a chi rappresenta Gesù, la padrona di casa spezzerà il pane e lo offrirà prima ai santi e poi a tutti coloro che sono presenti; in seguito sarà servita l’insalata e due diversi tipi di pasta.
Tutto ciò che avanza viene offerto ad amici e parenti o a chi ha assistito alla “cena”: viene apparecchiata una tavola, a volte anche fuori dell’abitazione ed è un tripudio di allegria e convivialità.
Rosalba Rosano
Nella foto di copertina, un altare di San Giuseppe a Leonforte
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