ROMA – Certe volte, come cantavano Le Vibrazioni in “Dedicato a te”, c’è bisogno di andar via, di partire, di abbandonare consuetudini e routine per mangiare la polvere della strada, svegliarsi dentro nuovi scenari e nuove realtà e reinventarsi grazie alle suggestioni di un luogo. Altre volte, invece, sembra proprio necessario ritrovare la strada di casa, parlare lingue conosciute, rincontrare gli amici di un tempo, accoccolarsi dentro vecchi comfort e vecchie zone.
Il road movie “Tutto il mio folle amore”, film del regista premio Oscar Gabriele Salvatores è un esercizio particolarmente riuscito di dramma e commedia, un’opera dall’anima leggera e sempre in equilibrio col tema delicato della malattia. La pellicola trae spunto dalla storia vera di Andrea e Franco Antonello, padre e figlio che hanno deciso di intraprendere un lungo viaggio in moto di tre mesi tra Stati Uniti e Sud America. “Tutto il mio folle amore” è una storia difficile, d’amore e comprensione tra esseri umani, tra membri della stessa famiglia; tra padre e figlio è un cammino fatto di accettazione, di piccole conquiste e di gioie quotidiane, ma anche di sacrifici e di difficoltà, come i pregiudizi e l’isolamento.
Ambientato a Trieste, dove vive Vincent (Giulio Pranno), un sedicenne chiuso in un universo tutto suo, affetto da una forma di autismo e da un disturbo della personalità sin dalla nascita. Proprio a causa della sua situazione, questi ultimi sedici anni non sono stati facili per nessuno, né per il ragazzo stesso né per sua madre Elena (Valeria Golino), che ha dovuto confrontarsi giorno dopo giorno con i problemi causati dai disturbi del figlio. Ad aiutare la donna è arrivato col tempo il suo compagno, Mario (Diego Abatantuono), che ha trattato sin da subito il giovane come suo figlio, adottandolo.
Nella famiglia si viene a creare una sorta di equilibrio, seppur molto precario, nel quale i due adulti riescono tra alti e bassi a gestire Vincent. In questa situazione delicata irrompe una sera Willi (Claudio Santamaria), padre naturale del giovane e cantante squattrinato, che ha abbandonato Elena nel momento stesso in cui ha saputo che era incinta. In procinto di partire per un tour nei Balcani, l’uomo vuole conoscere il figlio che non ha mai visto, ma non immagina neanche lontanamente la situazione che si ritroverà davanti. Vincent, però, vede nel padre e nel suo furgone un tentativo di fuga e, nascosto nel veicolo, parte insieme a Willi, all’insaputa di quest’ultimo.
“Tutto il mio folle amore” di usuale ha proprio il viaggio di un padre scapestratissimo con un figlio, autistico, che non ha mai visto ma che si è infilato nel retro della sua auto e con cui ora è costretto a spostarsi nella sua tournée slava, mentre la madre e il secondo padre li inseguono convinti che il suo stile di vita perduto porterà problemi al ragazzo. In realtà proprio quello è ciò di cui il ragazzo ha bisogno: i problemi. Cresciuto in un mondo ovattato, necessita di vivere e sentirsi vivo nonostante la malattia e quei problemi, quelle incomprensioni, le situazioni pericolose e le avventure che si creano quasi spontaneamente in un viaggio scalcinato. Nel film ci sono tutte le scene che ci devono essere, dalla diffidenza iniziale al momento di unione, dall’incontro con la prostituta alla litigata che pare allontanarli. Non vuole stupire ma coinvolgere, non vuole farsi notare ma farsi volere bene, farsi amare.
Nei suoi momenti migliori “Tutto il mio folle amore” è toccante, buffo e credibile; l’alchimia tra l’esordiente Giulio Pranno (Vincent ) e Claudio Santamaria (Willi ) è strepitosa, e a tratti si ha davvero la sensazione che se non ci fosse un ciak a bloccarli potrebbero andare avanti ancora a lungo, finendo di edificare il loro mondo oltre i confini del cinema. L’occasione del viaggio permette ai due di conoscersi e approfondire quel legame di sangue che hanno ignorato per sedici lunghi anni. In questo viaggio nei Balcani e nei sentimenti, Willi e Vincent avranno modo di confrontarsi e parlare. Intorno ci sono i monti, misteriosi e accoglienti, con le loro pianure rocciose e le frontiere instabili. Circhi itineranti, vecchie palestre e brutti night diventano così i luoghi di un’educazione sentimentale e di un progressivo estraniamento culturale, riducendo la domanda del mondo che ogni viaggio comporta all’incontro (e alla separazione) dei due protagonisti.
“Tutto il mio folle amor”e è un road movie che di viaggi ne racconta due: uno del corpo e l’altro dell’anima. Il regista costruire una sua personale visione dell’uomo e dei sentimenti. Il sentimento predominante è l’amore nelle sue varie declinazioni, anche se in primo piano c’è il rapporto padre/figlio. C’è anche la rappresentazione della malattia mentale, presa di petto e trasformata in un’esplosione di vita e di vitalità, la vitalità di Vincent e di un Willi canterino e autoironico, è molto simile ai personaggi di Marrakech Express. Alla loro avventura anche un po’ western fanno da contraltare due personaggi notturni e malinconici a cui Valeria Golino e Diego Abatantuono si abbandonano generosamente.
Certamente si tratta di una pellicola da tenere d’occhio, che si fa forte di buone interpretazioni e di una narrazione delicata, inserendosi così come uno dei lavori tra i meglio riusciti e solidi degli ultimi anni. “Tutto il mio folle amore” riesce a proporre un genere quasi del tutto desueto nel cinema nostrano come l’on the road, per elaborarlo nel trattare una delle tematiche più inflazionate in modo originale e brillante da un maestro come Salvatores, che si conferma ancora una volta come uno degli autori italiani più interessanti e spesso poco considerati.
Questa storia grandiosa e imprevedibile trasuda umanità proprio perché vera e ha qualcosa da insegnare a ognuno di noi.
Adele Paglialunga
Nell’immagine di copertina, un momenti di “Tutto il mio folle amore”
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