MILANO – Odio e vendetta sono i termini che ricorrono più frequentemente in questi giorni, parole terribili che evidentemente non possono essere considerate quali categorie-guida delle scelte politiche e men che mai funzionali ad un qualsiasi percorso di pace. Periodo travagliato quest’ultimo per la grande difficoltà di trovare soluzioni ragionevoli che possano almeno portare ad un cessate il fuoco; ma anche duro, soprattutto per il dolore provocato dalla carneficina di tante vittime innocenti, per le immagini strazianti divenute foto su rotocalchi volgari e insensibili che indugiano volutamente sui corpi martoriati, sulle teste decapitate, sui bambini brutalizzati. Nessun valore aggiunto in queste bieche scelte editoriali, meglio un “dolore velato” che si inchina e piange di fronte a stragi così immani.
Quello che hanno fatto i terroristi di Hamas il 7 ottobre in Israele non ha nessuna giustificazione morale, politica o storica; non c’è “ma” che tenga e pur tuttavia bisogna riflettere sul senso, nell’attuale complessità e concatenazione mondiale, delle posizioni di chi chiede di schierarsi da che parte stare e che si operi una distinzione tra aggressori ed aggrediti. Occorrerebbe invece essere tutti per la pace, sempre condannando i colpevoli, ma con la consapevolezza che un terzo conflitto mondiale porterebbe alla fine dell’umanità. Qualcuno obietterà che anche gli Alleati hanno bombardato e raso al suolo Dresda nel ’45, città dichiarata “zona demilitarizzata”, nonostante ospitasse rifugiati e civili. Quanto sarebbe più utile, al contrario, ricordare senza strumentalizzare come ha fatto il borgomastro, Dirk Hilbert, in occasione del 75° anniversario invitando i suoi concittadini a non incentivare i cattivi ricordi e ammonendoli a considerare che “il bombardamento della nostra città inizia quando le persone sono ostili agli altri a causa del colore della loro pelle, della loro religione, del loro sesso o del loro stile di vita”.
Odio e vendetta, ancor più se hanno come obiettivi esseri inermi, non possono che suscitare altro odio e pari vendetta, in una catena tragica e inarrestabile: dagli attacchi vili e premeditati dei terroristi, alle azioni efferate dei tanti “lupi solitari”, ai militarismi di Stato che usano le forze armate regolari per operazioni messe al bando da tutte le convenzioni internazionali. L’odio fomentato per generazioni che ha come obiettivo l’annientamento dell’altro, la vendetta esercitata con il potenziale delle armi attuali non possono e non devono essere strumenti tattico-militari e men che mai politici. Del resto è proprio delle faide mafiose agire in questo modo spregevole, giustificandosi con la terrificante logica “del sangue che va lavato col sangue”.
Tra le tante storie riportate in questi giorni, invita a riflettere quella emblematica di un cittadino israeliano quasi centenario che da giovane, quando viveva in Polonia, ha visto i suoi affetti essere cancellati dal Nazismo; ora nuovamente i terroristi di Hamas, con identica barbarie, hanno trucidato il suo nuovo mondo del kibbutz in cui viveva ai confini con la striscia di Gaza. O ancora quella di una giovane mamma israeliana che, di fronte al corpicino di suo figlio, in lacrime ha trovato la forza di dire che nessuna vendetta dovrà essere compiuta in suo nome ed analogamente quella delle affrante mamme palestinesi, i cui figli nati prematuramente lottano per la sopravvivenza nelle incubatrici che rischiano di spegnersi improvvisamente. Tutte “vere guerriere della pace”, mentre continua a rimanere inascoltata la voce del Papa che sottolinea che la guerra non risolve nessun problema e soprattutto distrugge il futuro: “È diritto di chi è attaccato difendersi – argomenta il Pontefice – ma sono molto preoccupato per l’assedio totale in cui vivono i palestinesi a Gaza, dove pure ci sono state molte vittime innocenti”.
Yuval Noah Harari, storico israeliano che vive in Inghilterra, ha visto i suoi parenti cadere vittima del terrore di Hamas, ma ribadisce che è un grande errore storico cercare di riparare gli errori del passato: “Le ferite vanno curate senza aggiungerne altre e simili”. Gli ebrei di buon senso, nota ancora Harari, non odiano i tedeschi per quello che è stato compiuto nei campi di concentramento, il passato non si può “riparare” e non deve configurarsi pertanto come un destino eterno; solo scelte consapevoli di pace potranno evitare che si ripeta. Sulla stessa linea il sentire di Dacia Maraini che, nel suo ultimo libro Vita mia, racconta la sua prigionia nel 1943 quando aveva appena 7 anni in un campo di concentramento giapponese. A Tempaku (periferia di Nagoya) ha sofferto la fame con le razioni giornaliere di pochi grammi di riso e subito con le sorelle ed i suoi genitori angherie e torture psicologiche di tutti i generi; ma ribadisce di amare il popolo e la cultura del Giappone, mentre condanna fermamente il militarismo che ha caratterizzato la politica dello stato nipponico in quegli anni.
Nessuno ha soluzioni pronte in tasca, né forza politica tale per arrivare subito alla pace, anche perché da sempre nel corso della Storia gli accordi sono stati siglati non a seguito di dolorosi bagni di sangue, ma grazie a compromessi e concessioni delle parti in causa. Bisognerebbe che soprattutto l’Europa, insieme alle altre potenze, si adoperasse per trovare una via concreta di pace, che potrà essere non quella giusta in assoluto, ma l’unica possibile. Nel 1993 gli accordi di Oslo e la stretta di mano tra Arafat e Rabin lasciavano intravedere l’inizio di un nuovo percorso, ma non è stato così. Il conflitto attuale rischia di infiammarsi ulteriormente ed inasprire uno scontro tra civiltà. I cosiddetti grandi della terra, quando finalmente si incontreranno ai tavoli per le negoziazioni, dovrebbero avere nella loro mente quella stretta di mano tra il leader palestinese Yasser Arafat con il primo ministro di Israele Yitzhak Rabin ed il loro saluto: Salam / Shalom.
E nei loro cuori il suono dolcissimo (dal film pluripremiato L’uomo che verrà) del vagito di un neonato e della melodia di una ninna nanna intonata in dialetto bolognese dalla sorellina, tra i pochi superstiti dell’eccidio di Marzabotto (1944). Nella scena finale, mentre i tedeschi si ritirano nel silenzio innaturale dei territori devastati e tra i corpi di bambini, donne, uomini, anziani e religiosi seviziati, quel neonato in una cesta e quella bambina seduta aspettano immobili che un’umanità nuova si profili all’orizzonte.
Adele Reale
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