Questa è una storia di ordinario degrado e di drammatica disperazione. Saaid aveva 55 anni, era di origini marocchine e viveva a Umbertide, in provincia di Perugia. Oddio, il termine “vivere” è decisamente inappropriato nella circostanza perché di fatto lui tirava avanti alla peggio tra mille stenti e costante apprensione. Saaid era arrivato in Italia con un regolare permesso di soggiorno, aveva lavoricchiato saltuariamente; poi il permesso era scaduto e non era stato più rinnovato: da quel momento era diventato “invisibile”, uno delle decine di migliaia di “sans papier” (come dicono in Francia) che popolano le zone più povere e infime ai margini della nostra cosiddetta civiltà. E’ morto nella notte tra martedì e mercoledì nell’incendio scoppiato in un ex mobilificio abbandonato alla periferia della cittadina umbra dove si era stabilito da tempo. Ad appiccare il fuoco, secondo i carabinieri che indagano, sarebbe stato un suo connazionale, Karim, di 49 anni, che avrebbe usato una bottiglietta di alcol. I due, probabilmente ubriachi, avevano violentemente litigato nel pomeriggio, pare per una birra non pagata.
La cronaca, nuda e cruda, finisce qui. Ma qualche considerazione è doverosa per un episodio che non ha ricevuto una particolare attenzione mediatica se non da parte della stampa locale. Innanzitutto, la pietas verso la vittima e anche verso il carnefice, figli entrambi dell’emarginazione e della disperazione. La giustizia farà il suo corso e accerterà le responsabilità, ma resta una generale sensazione di inadeguatezza a gestire situazioni del genere. Non ci sono bacchette magiche e non ci sono soluzioni miracolistiche per venire a capo di casi come questo (in ogni più sperduto angolo della nostra Penisola se ne contano a migliaia) e non è con il rimpatrio forzato che si risolve il problema. Ammesso che la cosa sia fattibile e che si trovino i soldi (tanti) per realizzarla.
Ma ci sono altre considerazioni a margine. In Libia, attualmente, ci sarebbero un milione di disperati provenienti dall’intera Africa subsahariana in attesa di solcare le onde del Mediterraneo e approdare in Europa. Li tengono in squallidi accampamenti, molto simili a campi di concentramento, alla mercè di torturatori, stupratori e violenze d’ogni genere. Vien da chiedersi se davvero si può definire “buonista” chi fa accordi con la Libia per continuare a tenere in piedi questi lager. Ed è “buonista” pure chi sarebbe disposto ad accoglierli in Italia per continuare a segregarli in strutture solo di poco meno inumane rispetto a quelle dall’altra parte del Canale di Sicilia (per poi magari distribuirli nel resto d’Europa anche se in realtà non li vuole nessuno)? Ed è davvero “cattivissimo” chi ritiene che l’unica strada percorribile sia quella di cercare di non far muovere questi disperati dai loro luoghi d’origine, creando lì condizioni di vita migliori?
Non ci sono ricette certe, questa è l’unica risposta possibile e sincera. Il problema dei migranti e di chi in un qualunque modo in Italia c’è già è molto più complesso e non può essere ridotto solo a slogan e titoloni, in un senso o nell’altro.
Buona domenica (nonostante tutto).
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