TARANTO – C’era una volta… “un re!” esulterebbe Giovanna Chiarilli. No, questa volta il suo bellissimo romanzo non c’entra… E neppure “un pezzo di legno” di collodiana memoria… C’era una volta u conzagràste.
Un tempo, non molto lontano, quando si rompeva un piatto di ceramica o una giara di terracotta, si chiamava u conzagràste e questo artigiano provvedeva a “cucire” i cocci fra loro: con un trapano a mano realizzava coppie di fori accanto alle linee di frattura e vi faceva passare dei pezzetti di fil di ferro, che poi provvedeva a serrare utilizzando una tenaglia. Naturalmente il suo intervento era richiesto solo per oggetti ritenuti particolarmente preziosi o costosi da sostituire: ceramiche o contenitori in terracotta di grande capacità. Il risultato non era particolarmente gradevole sul piano estetico e le linee di frattura restavano ben visibili, come pure i punti di cucitura, ma ci si passava sopra. Oggi andrebbe a finire tutto nell’indifferenziata… U conzagràste era un personaggio così popolare e di così rilevante utilità pubblica che trovava persino posto nel presepe.
In Giappone è in uso una tecnica, chiamata kintsugi (kin = oro; tsugi = riparare), che fa l’opposto: evidenzia le fratture, le impreziosisce e aggiunge valore all’oggetto rotto. La tecnica consiste nell’utilizzare un metallo prezioso (oro o argento o lacca con polvere d’oro) per congiungere i frammenti di un utensile di ceramica rotto, rendendolo unico ed irripetibile, in virtù della casualità con cui si formano i singoli frammenti: ancor più pregiato di quand’era sano.
Secondo alcuni, il kintsugi sarebbe stato inventato attorno al XV secolo: lo shogūn Ashikaga Yoshimasa avrebbe infatti deciso di affidare la propria tazza da tè preferita, ridotta in mille pezzi a seguito di un incidente, ad alcuni ceramisti giapponesi, affinché fosse riparata. Questi, colpiti dall’attaccamento mostrato dallo shogūn per l’oggetto, decisero di trasformarlo in gioiello e riempirono le crepe con lacca di uruschi (la resina di una pianta autoctona del Giappone), mischiata a farina di riso e polvere d’oro. In tal modo, le linee di frattura, da penose testimonianze di un trauma patito, vennero trasformate in una preziosa trama arborescente; da ferita dolorosa in elemento di narrazione.
Come le rughe del viso di chi ha vissuto intensamente: “Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una: c’ho messo una vita a farmele!”, raccomandò Anna Magnani al suo truccatore.
La lezione suggerita dal lavoro del conzagràste è quella di non badare alle ferite e di pensare alla sostanza piuttosto che all’apparenza; quella indicata dall’arte del kintsugi è di considerare ogni evento traumatico un’opportunità. È, la seconda, l’essenza stessa della resilienza: crescere attraverso le proprie esperienze dolorose, valorizzandole, esibendole addirittura, per giungere a comprendere che sono proprio queste a rendere ogni persona unica e perciò preziosa.
Ma, così come gli oggetti riparati con la complessa tecnica del kintsugi non ritornano uguali a prima e le crepe non scompaiono, allo stesso modo i nostri limiti, le fragilità, i difetti, le difficoltà esistenziali non vanno tenuti nascosti ma compresi e superati, potenziando e valorizzando le nostre risorse, piccole o grandi che siano.
Riccardo Della Ricca
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