ASSISI (Perugia) – L’hanno trovata in un convento di clarisse ad Assisi. Polverosa ma integra e, tutto sommato, ben conservata. E’ una cassa lignea che misura un metro e settanta di lunghezza per sessanta di larghezza: è la probabilissima cassa mortuaria di San Francesco. Per mera prudenza i francescani – sono in corso ulteriori studi, ma gli approfondimenti e le ricerche soprattutto di padre Marino Bigaroni, minore francescano e grande intellettuale purtroppo recentemente scomparso, offrono chiarificazioni decisive – continuano a tenere riservatissima, se non segreta la loro scoperta.
Tuttavia una serie di elementi particolarmente significativi e convincenti dicono che la cassa ritrovata, a forma di arca ed in legno di noce, con le maniglie per sollevarla, sia proprio la bara in cui alla morte, avvenuta la sera del 3 ottobre 1226, fu amorevolmente depositato il corpo del Santo, spirato alla Porziuncola.
La “chiave” del riconoscimento è stata fornita, per certi versi, dalla cassa funeraria della beata Giuliana da Collalto, morta a Venezia nel 1262 (pertanto 36 anni dopo San Francesco), custodita al Museo Correr nel palazzo ducale della città di San Marco.
La cassa si presenta con una tipica serratura, con ventiquattro archetti (numero sacro: tanti vengono considerati i beati attorno al trono di Dio), identica a quella installata da un ignoto fabbro assisano sulla cassa riemersa dalla polvere di un magazzino e dall’oblio dei secoli e che, sulle prime, si era ritenuta seicentesca. Addirittura, sebbene più antica di qualche decennio, la serratura umbra risulta meglio conservata di quella montata sulla cassa della beata Giuliana (che venne interrata e poi riesumata nel 1290) e che riporta la data del 1262. La cassa funeraria veneta, proveniente dal quartiere della Giudecca, presenta all’interno, sotto il coperchio e sul prospetto, dei dipinti duecenteschi, che la rendono particolarmente preziosa per la storia della pittura veneta e che rappresentano i santi Cataldo e Biagio.
I minori francescani sono convinti che sul coperchio della cassa recuperata ad Assisi, vi fosse l’antica immagine di san Francesco (ora al Museo di Santa Maria degli Angeli), opera attribuita ad un pittore dell’epoca, Giunta Pisano, che servì poi a Cimabue, nell’ultimo scorcio del Duecento, per l’affresco che rappresenta il Poverello nella basilica a lui dedicata. Le fonti – come Tommaso da Celano e Ludovico da Pietralunga -, pur non descrivendo la cassa nei suoi particolari, specificano che il santo, dopo essere spirato alla Porziuncola, venne depositato in una cassa che, posta su un carro trainato dai buoi, salì verso Assisi, facendo tappa a San Damiano e raggiungendo infine la chiesa di San Giorgio, successivamente smantellata e confluita in un convento cittadino.
Il corpo di San Francesco rimase nella bara, all’interno della chiesa, per quattro anni, fino a quando, costruita la basilica, fu traslato nell’arca di pietra edificata in suo onore: correva il 1230 (due anni prima il Poverello era stato canonizzato).
La cassa mortuaria rimase nella chiesa di San Giorgio fino al 1263, sempre meta di fedeli. Una cronaca di Ludovico da Pietralunga, risalente al 1251, assicura che dalla cassa, ogni venerdì, “fluiva” il sangue e che questo liquido veniva raccolto, per devozione, dalle suore in una piccola urna d’avorio. Quel via vai di fedeli, tuttavia, risultava sgradito alle monache di clausura, le quali si mossero con le autorità gerarchiche fino ad ottenere che ai fedeli fosse interdetto l’accesso alla chiesa, poi in parte demolita ed inglobata nel convento che si andava ingrandendo. La stessa cassa che ospitò il corpo di Francesco servì pure per accogliere le spoglie mortali di santa Chiara, anche in questo caso per un periodo di pochi anni, nel 1247.
La bara, ormai vuota, finì come reliquia ai membri della famiglia dei Vigilanti (uno dei quali, Bernardo, compariva nell’elenco dei primi dodici compagni del Poverello); quindi passò ai Giacobini (nel 1721 la conservavano ancora loro: lo ricorda Pompeo Bini in un libro); successivamente, per eredità, arrivò ai Bini Cima per approdare ai Carattoli, a fine Ottocento. Alla sua morte Luigi Carattoli la lasciò ai frati di Santa Maria.
Oltre alla serratura – testimone silenziosa ma altamente attendibile dell’antichità della cassa funebre ritrovata – altri elementi depongono a favore della tesi che fu proprio questo legno ad ospitare le spoglie mortali del santo.
Sul prospetto, proprio intorno alla serratura, la cassa riporta disegnati e incisi, sul legno, simboli esoterici escatologici, molto ben documentati dalla etnografia di popoli anche anteriori al Cristianesimo: la rosetta a sei petali (il fiore della vita e pure i sei giorni della creazione del mondo); la palma (simbolo di vittoria); lo zig zag (che rappresenta il variare del destino umano); la Y (segno, addirittura, pitagorico che rimanda alla Bi-Via, le due strade, il doppio esito della vita umana, il bene ed il male). E, guarda caso, questo simboli, si riscontrano sul decorato fitomorfico musivo del pavimento tutto intorno all’altare sepolcro del santo, il suo sacello, nella basilica inferiore di Assisi. Una mano – probabilmente non quella di un ignaro ed illetterato artigiano del legno – suggerì prima di riprodurre il disegno sul legno della cassa funebre di Francesco e lo fece poi ripetere sul pavimento della basilica?
Qui si aprono, anzi si spalancano, altri interrogativi. Tra i primissimi compagni di Francesco – molti dei quali provenivano da famiglie nobili comunque abbastanza ricche, e, pertanto, spesso istruiti se non colti – c’era qualcuno cultore di alchimia e di esoterismo? Ecco che si staglia la grande figura di Elia da Cortona, al secolo Elia Bonbarone di Assisi, che alla corte di Federico II, “stupor mundi”, frequentava il filosofo ed alchimista Michele Scoto, maestro riconosciuto di questa disciplina tanto da venir citato, tra gli indovini, anche da Dante nella Divina Commedia.
Questa, però, è un’altra storia.
Elio Clero Bertoldi
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