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Rascino, le lenticchie raccontano il territorio

di | 2021-03-20T17:50:40+01:00 21-3-2021 6:10|Enogastronomia, Sezione 3|0 Commenti

FIAMIGNANO (Rieti) – In un tegame, possibilmente di coccio, versare 2 litri di acqua fredda, 150 grammi di lenticchie, due spicchi d’aglio, una foglia di sedano, mezzo bicchiere di polpa di pomodoro, una carota, 4-5 patate tagliate a pezzi grossolani. Salare e portare a cottura senza far scuocere, togliere aglio e sedano, far riposare per 10 minuti, impiattare, condire con un filo di olio evo a crudo. Questa è solo una delle tante ricette per cucinare la lenticchia di Rascino, buona in umido, con le patate, con il guanciale, salsicce, con verdure e funghi, con taglioni o pasta corta. Seme piccolo, variamente colorato nelle sfumature di marrone (una delle caratteristiche per riconoscerla), ha una buccia tenera e non ha bisogno di essere messa in ammollo prima di essere cucinata, tiene perfettamente la cottura (si cuoce in venti minuti) ed è molto saporita. Indice glicemico basso.

Coltivata per secoli sull’altipiano di Rascino, nelle piccole vallette umide, è un ecotipo, strettamente legato alla storia e alle tradizioni del luogo, prodotto esclusivamente senza fertilizzanti, né diserbanti, come tutte le produzioni dell’altipiano (farro, ceci, biancòla, orzo, patate) a protezione delle sorgenti del Peschiera, che scorrono sotto il vicino Monte Nuria. Il territorio ha un notevole valore naturalistico ed è stato catalogato dalla Comunità Europea come Sic (Sito di interesse comunitario), per proteggere e salvaguardare la biodiversità, sia animale, che vegetale. E’ il primo e finora unico presidio Slowfood della provincia di Rieti, è inserita nell’elenco regionale dei prodotti a rischio di erosione genetica e tutelata dall’Arsial. Con “Territori capaci di futuro” ha partecipato ad Expo 2015, riscuotendo un grande successo.

“Un prodotto tradizionale di altissima qualità, che cresce in un territorio incontaminato a 1300 metri, frutto di un’agricoltura di resistenza, che si oppone ostinatamente all’abbandono dei terreni montani e presidia paesaggi agricoli di grande valore dell’area appenninica” commenta Edoardo Isnenghi, responsabile del presidio Slowfood che ha guidato i produttori a costituirsi in associazione, stilando un protocollo ben preciso a tutela del seme: ogni anno se ne conserva per garantire la risemina e se la produzione non è abbastanza per la vendita (quando la stagione non è stata climaticamente idonea, o se cervi, caprioli e cinghiali ne hanno fatto razzia) si rinuncia alla vendita. La conservazione del seme prima di tutto.

Lo spopolamento del territorio stava minacciando la produzione e nel 1971 la Pro Loco d Fiamignano ne rilanciò la produzione, con la prima sagra organizzata in piazza, con solo cinque chili. Da allora ogni anno la sagra è un appuntamento fisso e atteso nel mese di agosto, che solo il Covid ha potuto fermare. La scorsa estate niente sagra, ma la Pro Loco ha distribuito le classiche bottiglie dal collo lungo, piene di semi (si usa conservarla in recipienti di vetro per preservarla dall’umidità), ciotole di coccio e tutto il kit per cucinarla. Oggi la produzione è aumentata, anche se il mercato resta di nicchia, perché la vera lenticchia di Rascino (diffidate dalle imitazioni) ha spazi limitati di produzione, che corrispondono solo in linea teorica a 320 ettari, perché la proprietà dei terreni è parcellizzata, perché ogni anno vengono eseguite le rotazioni con cereali e periodicamente i terreni vengono messi a riposo, per recuperare fertilità in modo naturale. La produzione media è di circa 700 kg per ettaro su 100 effettivamente coltivati. Vengono seminate in primavera, tra marzo e aprile, appena è possibile accedere ai terreni, dopo l’innevamento invernale.

Il ciclo di produzione è rapido, la raccolta è tra luglio e agosto, prima la falciatura e dopo pochi giorni la trebbiatura, come da tradizione. Segue la disinfestazione dal “tonchio” un coleottero che si nutre e si riproduce nei semi, attraverso un procedimento di congelamento a -18/20° C per 3-4 giorni. Dopo la pulitura meccanica, non possono essere utilizzate selezionatrici ottiche per non ridurre la diversità e vengono confezionate utilizzando materiali idonei all’alimentazione umana. La sua coltivazione è talmente legata al territorio, che sono stati scritti canti popolari, storie e componimenti in ottava rima, testi trasmessi per via orale direttamente da chi le ha composte. La trascrizione è stata effettuata con il sistema ortofonico.

Un tempo tutto il procedimento era manuale, aratura dei terreni sassosi con aratro e buoi, pulitura dalle erbacce e setacciatura a mano, solitamente compito delle donne, la trita veniva effettuata sull’ara, con i cavali in circolo che calpestavano il raccolto per far uscire il seme, setacciatura e le donne infine ripulivano i semi con pazienza dentro ’u capischièru: “Missu ‘n zinu, all’ombra o a’ sole, se ci pozzu passa l’ore”.

In un piatto di lenticchia di Rascino c’è la storia di chi ha vissuto in un territorio aspro e difficile da coltivare, in transumanza verticale: “…Noi rurali si sgobbava dall’aprile al novembre per la via che porta a Rascino, per riportare legna, foraggi, legumi, grano e patate per sbarcare il lunario veramente pessimo… l’anno più scuro fu il 1929 con moria di animali e scarso raccolto per via delle grandi gelate “ (A. Di Flavio). In un piatto di lenticchie c’è molto di più di quanto si possa immaginare.

Concludiamo regalandovi un’altra ricetta della tradizione. In un tegame (sempre di terracotta possibilmente) versare un litro di acqua fredda, 200 grammi di lenticchie, due spicchi d’aglio. Lessare i legumi a fuoco lento, togliere gli spicchi d’aglio. A parte tritare finemente una carota e una foglia di sedano, soffriggere il trito insieme a un etto di guanciale tagliato in piccoli pezzi, sfumare con mezzo bicchiere di vino bianco (o un cucchiaio di aceto), aggiungere un bicchiere di polpa di pomodoro e far cuocere per qualche minuto. Unire alle lenticchie e far riposare 10 minuti prima di servire.

Francesca Sammarco

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