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Quel vizio bruttissimo di (s)parlare a vanvera

di | 2020-08-20T18:43:17+02:00 23-8-2020 6:05|Attualità, Sezione 2|1 Comment

ROMA – Il pettegolezzo è l’aspetto più antipatico di quel che ostentiamo di noi stessi. E’ il biglietto da visita con cui ci presentiamo, con cui esprimiamo il nostro bisogno di essere ascoltati e di essere considerati molto autorevoli, più degli altri. E’ un sintomo, quindi, di una nostra fragilità che può diventare molto pericolosa perché è proprio con il pettegolezzo che si crea l’opinione pubblica e da lì, purtroppo, il passo verso il pregiudizio e la diceria è breve. Lo sapeva bene la cantante Mia Martini, sulla quale i “rumores” avevano costruito la fama di “jettatrice”, pecetta che lei non seppe mai togliersi di dosso e che spesso la tenne lontana dal palcoscenico e che probabilmente la portò al suicidio. Esperienza vissuta anche dal suo collega Marco Masini che, però, riuscì a lavare questo marchio infamante gridando, nel 1993, un bel “vaffanculo” nella sua canzone dal titolo omonimo, utilissima oltre che come strumento di riscatto personale, anche di una sua ripresa economica perché gli fece vendere 800mila copie di dischi.

Mia Martini

Marco Masini

Ma non tutti hanno la stessa forza del cantante – oggi “riabilitato” del tutto e che ha affrontato anche Sanremo – di gareggiare con coraggio contro la maldicenza e le conseguenze che ne derivano, in alcuni casi davvero insormontabili. Oggi non ne sono immuni neanche gli adolescenti che sui social riescono a diffondere dicerie terribili sui loro coetanei e le statistiche ci parlano di troppi ragazzi che si sono tolti la vita perché non hanno saputo sopportare ciò che si diceva sul web a proposito di loro. Caso limite, quello del cosiddetto “ragazzo dai pantaloni rosa”, uno studente di un liceo romano che qualche anno fa si è suicidato dopo mesi di angherie in classe e sui social da parte dei compagni. Perché il web, si badi bene, amplifica all’ennesima potenza le chiacchiere ma esse stesse, per loro natura, sono già delle temibili mine vaganti.

E’ stato sempre così. Virgilio, nel quarto libro dell’Eneide, dà il nome di “Fama” (dal greco femì: parlare), alla maldicenza e la descrive come un mostro dai piedi e le ali veloci, coperto di piume e occhi, bocche, lingue, orecchi. E’ lei che, portando in giro per le case della città la notizia dell’amore di Didone per Enea, indebolisce il suo ruolo di regina, la rende ridicola e la porterà a gettarsi da una rupe quando lui la abbandonerà per andare a creare i presupposti per Roma. La fondatrice di Cartagine non avrebbe saputo sopravvivere di fronte ai suoi sudditi che le parlavano alle spalle come di una donnetta innamoratasi del primo venuto. E ciò è del tutto comprensibile. La Fama, secondo il poeta, non dorme mai, sempre intenta a diffondere voci diffamanti e gratuite ma soprattutto a meditare su come farlo. Lavora in modo scientifico. Essa non serve a niente ma è una delle attività cui l’uomo – e anche la donna – ama lasciarsi andare senza freni. E non danneggia solo gli altri. Rivela, infatti, anche molto di noi perché, a saperli leggere, mette a nudo degli aspetti intimi dei quali non dovremmo andare fieri. Virgilio nel poema diceva che la Fama era stata generata dalla Terra, adirata con gli dei perché le avevano ucciso gli altri figli. Per questo il mostro, da buona sorella, era in cerca di vendetta.

L’autore dell’Eneide non andava lontano da quelli che sono gli studi della psicologia sui comportamenti umani. Nella maldicenza, infatti, sono insite la rabbia e la voglia di compensare dei limiti che ci impediscono di essere come vorremmo. L’intenzione, quindi, è quella di distruggere qualcuno che per le sue caratteristiche ci dà fastidio. Ci dà fastidio evidentemente perché ha qualcosa che noi non abbiamo ma che non cerchiamo attraverso la fatica della sperimentazione e dello studio: preferiamo la via più comoda ossia quella di distruggere quelle doti in chi le possiede al fine di evitare il confronto. Quindi, attenzione quando parliamo con dovizia di particolari di una persona perché quello potrebbe essere il momento in cui stiamo distruggendo la vita di qualcuno rivelando anche che ne siamo invidiosi. La maldicenza, la diceria, la chiacchiera che sembrano attività del tutto innocue e soprattutto sono nate insieme all’uomo, fanno parte di quella lista di comportamenti che rivelano la nostra insoddisfazione e il desiderio di apparire migliori, brillanti, perché la sappiamo più lunga su qualche argomento o qualcuno. La maldicenza, invece, è solo il frutto della nostra disperazione quando non riusciamo più a provare il gusto della vita e la nostra curiosità, che di per sé è positiva perché porta alla conoscenza, si trasforma in divagazione su temi inutili come gli affari privati di altre persone.

Sparlare è in realtà un piacere illusorio, che non comporta fatica e soddisfa solo un pruriginoso bisogno di sbirciare aspetti morbosi ma non apporta nulla alla nostra crescita. Anzi, ci allontana dall’impegno civile e dalla responsabilità nei confronti della comunità in cui viviamo. Una riflessione, questa, che sicuramente non è arrivata nei pensieri di molti dirigenti e capi d’azienda che vedono nel motto “divide et impera” la regola principale per la gestione del personale mentre invece il loro compito sarebbe quello di garantire un ambiente sereno e, proprio per questo, più produttivo. Varrà ricordare che il diritto alla salute psicofisica deve essere garantito dal titolare già dagli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione e dall’articolo 2087 del Codice civile che prevedono sul posto di lavoro un contesto sano e in grado di favorire relazioni positive, comunicazione e collaborazione.

Ci stupisce, invece, sapere che secondo un monitoraggio dell’Ispels (Istituto per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro), sono circa un milione e mezzo i lavoratori italiani vittime di mobbing (su un totale di 21 milioni), ossia quella sistematica persecuzione attuata attraverso il chiacchiericcio e il sabotaggio professionale. Ci stupisce di più, poi, constatare che è la politica la prima a mostrare, prima tra tutti, incontinenza verbale attraverso dichiarazioni infondate e portatrici di pregiudizi atte a distorcere l’informazione e a fomentare l’odio e la rabbia riversandola su dei capri espiatori. E se chi è stato eletto dovrebbe essere anche un modello di comportamento, di etica, ecco perché, a cascata, tutte le altre manifestazioni della nostra (in)civiltà, non sono da meno. Quando la diceria diventa populismo, infatti, non c’è più niente da fare. Tutti diventano complici: chi (s)parla a vanvera e pure chi ripete.

Gloria Zarletti

One Comment

  1. Serena 23 agosto 2020 at 13:53 - Reply

    Grazie Gloria

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