ROMA – “Il ragazzo dai pantaloni rosa” esce nelle sale e sbanca nei botteghini. Ma da quel 2012, anno in cui a Roma la terribile vicenda di bullismo si è conclusa con il suicidio della vittima dei compagni del liceo Cavour, la piaga non si è arginata. Si è solo modificata per rendersi meno individuabile, invisibile, e questo film ci ricorda che il pericolo è sempre in agguato.
Andrea Spezzacatena (nel film Samuele Carrino) era un ragazzino di 15 anni come tanti, anzi no. Il problema consisteva proprio nel fatto che era più originale degli altri, più sensibile, e non era omologato al gruppo. Si sentiva libero di indossare “anche” quei pantaloni rosa che gli stereotipi culturali considerano “da femmina” come lo smalto con cui spesso amava colorarsi le unghie e per cui veniva preso in giro e chiamato “gay”. Lui, però, non era omosessuale. Era solo se stesso, non uguale. Per questo non gli si perdonava niente, neanche quel suo piccolo difetto di pronuncia che era diventato oggetto di burla, scherno. Ne avevano fatto il suo nomignolo.
Questo gioco perverso non avveniva solo a scuola ma addirittura sui social dove i compagni avevano creato un profilo a suo nome per offenderlo, prenderlo in giro, sparlare di lui. Sandro Botticelli rappresenta la “Calunnia” (Galleria degli Uffizi), come una donna molto bella che trascina la sua vittima impotente con una fiaccola spenta in mano, simbolo della falsa conoscenza. Nel mentre una donna nuda, la “Verità”, guarda il cielo come a dire che solo lì c’è giustizia. Andrea ha vissuto i suoi ultimi tempi come quella figurina ritratta dal pittore fiorentino, trascinata dalla maldicenza. Quando, non sopportando più le vessazioni, si è tolto la vita impiccandosi, è emerso un sistema di omertà e indifferenza spaventoso che, al di là della crudeltà con cui i suoi coetanei si erano accaniti contro di lui, deve far riflettere sui motivi per cui accadono questi fatti.
Da quando Andrea se ne è andato, la madre Teresa Manes (nel film Claudia Pandolfi), autrice dei due libri da cui il film di Margherita Ferri è tratto, è impegnata in una campagna informativa e di prevenzione contro il bullismo nelle scuole e nelle università italiane. Però, da quel novembre 2012 in cui Andrea si è tolto la vita a oggi poco sembra essere cambiato. Giorni fa la proiezione del film al Festival del Cinema di Roma ha suscitato schiamazzi e insulti omofobi da parte di giovani romani e questo episodio non è rassicurante. La Calunnia di Botticelli vale ancora come rappresentazione della nostra quotidianità con una differenza: che oggi noi dobbiamo batterci affinché la verità si affermi con lo studio, la cultura, la corretta informazione e non dobbiamo aspettare di andare in cielo per ottenerla.
Nel 2023 il 26,9 per cento degli studenti italiani risultava essere stato vittima di bullismo ma questo è solo ciò che emerge. Gli altri hanno paura a denunciare e molti episodi vengono affossati dalla congiura del silenzio. Baby gang girano la notte indisturbate per le città cercando qualcuno da picchiare per sembrare grandi. Un ragazzino nei giorni scorsi ha accoltellato un quarantenne. Sono fatti che avvengono all’improvviso o i segnali premonitori di certi comportamenti non vengono interpretati bene e curati? Prevenuti? Perché ricordiamoci che Andrea non aveva confessato a nessuno di essere vittima dei suoi compagni ma sicuramente qualcuno sapeva e tuttavia non parlava. Neanche tra i genitori, neanche tra il personale della scuola, dimostrando che l’indifferenza è una disfuzione sociale.
E la signora Manes è da allora che ripete nelle sue conferenze come il “silenzio di chi sa” è proprio lo strumento con cui si diventa complici del bullismo. Quando accadono fatti simili a quello del liceo Cavour – ma in questi dodici anni se ne sono ripetuti a centinaia – si torna a parlare del ruolo della scuola e della famiglia. Ma, al di là dell’ovvietà di questa realtà, rimane il fatto che l’attenzione sul fenomeno va dirottata dalla vittima al carnefice. E’ a lui che va spiegato il motivo per cui sente il bisogno di opprimere qualcuno, di sparlare di lui. Gli va spiegato, non chiesto, il motivo per cui sente il bisogno di perseguitare qualcuno: lui non è consapevole che comportarsi così gli conferisce un ruolo sociale che lo rende visibile agli altri. E la famiglia – poi la scuola – deve dare come alternativa l’impronta del rispetto e la cura delle relazioni con gli altri. Anche attraverso lo studio delle grandi allegorie rappresentate nei dipinti.
La recrudescenza di fatti gravi negli ultimi tempi, tra i giovani dove i pretesti per opprimere compagni e anche adulti sono inconsistenti, dimostra che il disagio giovanile è grande e che la violenza e l’arroganza sono rimasti gli ultimi baluardi ad una esistenza che non trova altre conferme se non nello schiacciare chi è meglio di noi. I social fanno il resto e lì ci sono anche gli adulti cui piace parlare male degli altri. Ma quello è un altro capitolo.
Gloria Zarletti
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