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Quando il peculato diventa solo gossip…

di | 2024-09-12T18:30:21+02:00 15-9-2024 1:30|Cultura, Sezione 7|0 Commenti

MILANO – È inevitabile constatare quanto siano in aumento le denunce di casi di peculato (art.314 e art.316 c.p.) a carico di “pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio”, i cui eventuali reati dovranno essere sempre accertati e sanzionati nelle sedi appropriate; pertanto, non devono trovar spazio i processi mediatici o vane parole censorie sul malcostume. Ci penseranno la Giustizia, per la parte penale e la Storia, per il peso politico e le aderenze sociali. Interessante, tuttavia, potrebbe essere riflettere sull’etimologia delle parole che, nella loro struttura, utilizzo ed evoluzione, sono inevitabilmente lo specchio dei tempi, dei luoghi e dell’agire degli uomini.

Il termine peculatus deriva dal verbo latino peculari (frodare lo Stato, appropriarsi di denaro pubblico) e rimanda direttamente al peculium, con cui si indicava il patrimonio del pater familias. Egli poteva farne dono ai figli e perfino agli schiavi (servi), perché ne avessero il godimento e l’amministrazione, ma non la proprietà. L’unico soggetto, infatti, con capacità giuridico/patrimoniale della famiglia nella società romana era il padre ed il peculium era un bene strettamente personale, accezione ancora rimasta nell’aggettivo “peculiare” ad indicare qualcosa di tipico e caratteristico in maniera più specifica. Tale patrimonio era inizialmente costituito da bestie (da pecus, cioè gregge, pecora), espressione evidente di un contesto arcaico-patriarcale, ad economia agricolo/pastorale. Anche il termine pecunia (denaro) deriva da pecus, dal momento che nei primi scambi commerciali si faceva ricorso, come moneta e metro di valutazione, al bestiame.

La radice pek-u (bestiame, appunto) era già presente nel protoindoeuropeo e divenne in seguito la struttura di fehu (feudo) protogermanico e feho nell’inglese antico. Altrettanto interessante l’uso che troviamo in tante opere letterarie, basti citare Dante che fa pronunciare il termine peculio a San Tommaso nel canto XI del Paradiso quando, riferendosi a San Domenico, l’altro eletto da Dio a salvare la Chiesa, afferma che seguendo i precetti domenicani si consolidano virtù e meriti per la salvezza eterna (“per che, qual segue lui com’el comanda, / discerner puoi che buone merce carca”), mentre il suo “gregge” è costituito da seguaci avidi di “altri cibi terreni e materiali” (“Ma il suo peculio di nova vivanda / è fatto ghiotto”). In pochi, di conseguenza, sono rimasti fedeli alla regola dell’ordine e la maggior parte se ne è allontanata, avendo ormai perso ogni aspirazione alla ricchezza spirituale.

Più sarcasticamente amare le considerazioni di Luigi Pirandello che nella novella Sole e Ombra (1896) rappresenta l’Io narrante del protagonista Ciunna nella durezza di una vita fatta di sacrifici e povertà nera, macchiata da un unico reato compiuto per cercare di sollevare le sorti miserrime della famiglia: “Zitto, zitto duemila e settecento lire. Duemila e settecento lire sottratte alla cassa del magazzino generale dei tabacchi. Dunque, reo… ssss… di peculato”. E se “i nomi sono conseguenti alle cose”, come si è soliti dire, allora povere pecore! Nell’evoluzione geo-linguistica questi mansueti quadrupedi sono assurti a simbolo, in maniera antitetica, di sentimenti diversi: dalla ribellione trasgressiva all’obbedienza passiva ed allineamento inconsapevole, da pecora nera ad agnellino sacrificale, dal rifiuto di qualsiasi regola all’acritica accettazione del potere. Forse gli indifesi ovini, se potessero parlare ed accampare le proprie ragioni, poco gradirebbero l’essere associati semanticamente ad un reato.

I delitti di “peculato” (art. 314 c.p.) e “peculato mediante profitto dell’errore altrui” (art. 316 c.p.) sono perseguibili e puniti con la reclusione da quattro anni ai dieci anni e sei mesi, in relazione alla fattispecie. Erano contemplati già nelle Leggi Delle XII Tavole (450 a. C.) ed erano considerati per gravità sullo stesso piano del Sacrilegium, tanto che era prevista per entrambi la stessa pena: la “Interdictio aqua et igni” (letteralmente, Interdizione dell’uso dell’acqua e del fuoco), cioè l’allontanamento e l’esilio dal territorio romano. Appropriarsi indebitamente del denaro pubblico, quindi, era ed è sanzionato dalle leggi, ma quell’aura di nefando, di sacrilego sembra essersi rarefatta nel mondo attuale, quasi a voler derubricare tale reato ad azione privata, gossip destinato a finire sulle pagine di quotidiani e riviste.

Esempio evidente di come all’uso di una stessa espressione (crimen peculatus) non sempre segua meccanicisticamente un’identica indignazione e condanna morale nella società.

Adele Reale

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