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Punire e educare: binomio difficile

di | 2024-03-10T09:26:24+01:00 10-3-2024 5:10|Attualità, Sezione 3|0 Commenti

MILANO – “Non esistono ragazzi cattivi, ma solo giovani in difficoltà in cerca di aiuto e conforto”: è l’espressione forte che connota il pensare e l’agire di Don Claudio Burgio, cappellano al fianco dello storico Don Rigoldi, dell’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano. Il sacerdote ha fondato, fuori dalle mura/confine del carcere, una comunità per l’accoglienza ed il recupero di minori, tendendo loro una mano e aiutandoli ad accettare la sfida della libertà e del rientro nella vita, anche attraverso attività musicali, sportive, teatrali. Emblematico il nome scelto per la comunità “Kayros” (dal greco: καιρός), termine che indicava il tempo non in accezione quantitativa (chronos), ma in quella qualitativa e cioè il momento giusto, opportuno. E quanto mai opportuno sarebbe un intervento di tipo alternativo al carcere, prevedendo per i reati non gravi, soprattutto se commessi da minori, strutture “aperte” sul territorio e supportate da educatori preparati.

Don Claudio Burgio

I dati dell’associazione Antigone, nel recente rapporto sulla giustizia minorile, rilevano che nei primi mesi del 2024 sono già 500 i minori detenuti, il numero più alto nell’ultimo decennio. La crescita delle presenze negli ultimi dodici mesi è costituita quasi interamente da ragazze e ragazzi in misura cautelare, cioè in assenza di condanna definitiva; effetto, sottolineano gli esperti di Antigone, del cosiddetto decreto Caivano. Punire per educare, come titola l’Avvenire commentando questi stessi dati, è una scelta fallimentare. Punizione, del resto, è un termine drammatico, a cui ogni periodo attribuisce accezione diversa ed occorre, soprattutto in relazione a minorenni, interrogarsi se abbia ancora efficacia ricorrere essenzialmente alla reclusione come reazione a un reato. Negli anni scorsi ha prevalso una tendenza antiautoritaria e anti-repressiva; ma il vento degli “ismi“, che è tornato a soffiare impetuoso, ha alimentato una sorta di pulsione collettiva, che esige solo severità nella punizione, quasi fosse una sorta di vendetta pubblica.

La demagogica frase “rinchiuderli e buttar via la chiave”, oltre a non voler dir nulla dal punto di vista giuridico e morale ed a non tener conto della gravità del reato e dell’età di chi lo compie, si commenta da sola in un paese civile – quale si definisce il nostro – basato sul diritto, sul rispetto della persona e sulla finalità educativa della pena, in linea con la Costituzione. “Il carcere non deve essere una discarica sociale” sottolinea Gianrico Carofiglio scrittore ed ex magistrato, in cui si possa buttare tutto ciò che ci disturba. Questo non vuol dire che esso debba essere abolito o che, peggio, non si debba condannare chi delinque; ma è innegabile che ci siano reati per i quali il carcere è una reazione abnorme e che potrebbero, e dovrebbero, essere sanzionati con pene sostitutive. Per i minorenni occorrerebbe interrogarsi ed agire di conseguenza sia sul tempo del “dentro”, sia su quello del “dopo” carcere.

L’immagine di “kairos”

Lo fa con “delicatezza” ed attenzione (dopo un periodo trascorso nel carcere minorile di Bologna per informarsi, prepararsi e comprendere) Silvia Avallone, nel suo ultimo romanzo “Cuore nero” che, tra le altre istanze narrative, si (e ci) interroga sul dopo carcere e sul che fare quando il male commesso è irreparabile. Il libro è la storia di due solitudini, di due vite spente: una ha fatto il male, l’altra lo ha subito. Fuggono dalla società e si rifugiano entrambe in un mondo lontano (la Sassaia), isolato da tutto il resto e scelto proprio per questo, come una sorta di sacco amniotico nascosto tra le montagne, dove arriva solo una strada sterrata e nessuno può sapere ciò che è stato. Emilia, carnefice, ha scontato la sua pena di quindici anni da quando ne aveva sedici ed adesso rivive, nel suo isolamento, tutti i momenti passati: la solitudine, l’assenza di affetti, le frustrazioni, le violenze, l’autolesionismo, ma soprattutto un unico pensiero predominante: “nessuna vita era possibile. Il futuro era finito un mucchio di anni fa”. Anche Bruno, vittima, è chiuso in un abisso simile, quello di chi ha conosciuto il male; con i suoi occhi ormai solo immagine di “stelle morte” e la sua vita che va avanti senza che egli effettivamente viva.

La scrittrice Silvia Avallone

In questo quadro di “cuori neri”, affiora qualche positività come in Riccardo, padre di Emilia, sempre al suo fianco “non buttare via il dopo, ma ricostruiscilo”, o nell’educatrice Rita, attenta ai tanti ragazzi che incontra e che non considera scarti “per loro niente Jung, niente Freud… ma un progetto terra, terra”, proprio come quello che porterà Emilia a conseguire la laurea nel periodo della reclusione. Per lenire questo macigno di male e dolore racchiuso dentro i personaggi come “il reattore di Cernobyl”, che continua a lacerarli anche quando ogni debito con la società è “stato pagato”, nessuno ha risposte o soluzioni pronte. La scelta letteraria dell’autrice provvisoriamente prospetta quella dell’amore, in attesa che la vita possa farla sua o trovarne altre; intanto “La realtà esige// che si dica anche questo:// la vita continua” (Wislawa Szymborska, 1972).

Adele Reale

Nell’immagine di copertina, Silvia Avallone autrice di “Cuore nero”

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