MILANO – C’è una stagione della vita che sicuramente più turba ed addolora: è quella in cui il venir meno dei genitori costringe anche ad assolvere ad incombenze dolorose e penose. Chiudere per sempre e svuotare le case dove si è cresciuti, cercare tra i ricordi di una vita per decidere che cosa debba andare in discarica e che cosa essere conservato: è quanto di più lacerante si sia costretti a fare. È un momento in cui sembra vacillare la nostra umanità, proprio come in alcune immagini delle guerre di ogni tempo che raffigurano profughi (da pro-fùgere: cercare scampo) che abbandonano i loro paesi distrutti con sulle spalle dei miseri fagotti, oggi magari dei trolley, che contengono il concentrato di un’intera vita.
La mente va ad Enea in fuga da Troia in fiamme col vecchio padre Anchise sulle spalle, il figlioletto Ascanio, la moglie Creusa e gli dei Penati, tutori della casa e della famiglia. L’oggetto può rappresentare il tramite per recuperare la nostra umanità, il nostro essere uomini; in un barcone naufragato il 18 aprile 2015, dove morirono circa mille persone (cifra stimata, perché molti furono i dispersi), c’era un adolescente di 14 anni morto in mare con la pagella cucita in una tasca. Un ragazzo di quattordici anni morto nel Mediterraneo senza che nessuno lo possa piangere e “raccontato” dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo in “Naufraghi senza volto”, attraverso l’unica testimonianza della sua umanità: la sua pagella, un oggetto. Nel Liceo Cavalleri, di Parabiago (Milano) è stata posta una pietra d’inciampo dove è scritto: “Qui aspettavamo il giovane del Mali morto annegato il 18 aprile 2015 portando una pagella sul cuore. Ogni insegnante giusto lo avrebbe accolto”.
Oggi, invece, nella nostra società consumistica, l’oggetto è sempre più soltanto uno status symbol, fino al punto di sostituirci (basti pensare al prolungamento del braccio, a quella sorta di protesi che è diventato il telefonino), quando invece l’humanitas rinasce proprio da quegli oggetti vecchi e talvolta senza alcun valore delle nostre case d’infanzia. In fondo è così: ci identifichiamo anche attraverso le cose, abbiamo bisogno di oggettivizzare l’immateriale e l’extra/fisico; è importante un corpo su cui piangere, non già perché questo riporti in vita le persone amate scomparse, ma perché serve a noi per “agganciarci” a qualcosa di terreno e cercare di capire ciò che terreno non è. Quella stessa humanitas (la paidéia dei Greci) che fa dire a Terenzio nell’Heautontimorumenos (165 a.C.) “homo sum: humanum nihil a me alienum puto” (Sono un uomo e non ritengo niente che sia umano estraneo/lontano da me); fu Cicerone, in seguito, il grande teorizzatore dell’ideale dell’humanitas, la sua concezione dell’uomo e della sua dignità è stata ripresa dall’Umanesimo per giungere sino a noi.
Egli pensava, in estrema sintesi, alla formazione dell’uomo nella sua interezza politica, morale e intellettuale, pertanto il vir bonus (uomo giusto/corretto/onesto) sia nella vita pubblica che in quella privata doveva saper congiungere la “sofìa” con la finezza del sentimento, privilegiando la filantropia, l’estetica ed il senso del “decoro” (“quod decet”). Ed oggi? L’uomo, a furia di possedere, è divenuto egli stesso un oggetto da commercializzare, da studiare, monitorare come componente di un mondo in cui conta esclusivamente il profitto e non già l’humanitas.
Adele Reale
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