PERUGIA – Agosto 80 dC. L’imperatore Tito (39 dC-81 dC) inaugura l’Anfiteatro Flavio (oggi noto come Colosseo, i cui lavori erano stati avviati nel 70 dC ad iniziativa del padre, Vespasiano, e finanziati con le prede arraffate nella Guerra Giudaica), decretando cento giorni di festeggiamenti durante i quali il popolo potrà assistere a “venationes” (cacce con animali rari ed esotici), esecuzioni (di schiavi o di disertori), naumachie (battaglie navali) e ludi gladiatori. Proprio questi ultimi – fissati, per consuetudine, nel pomeriggio – rappresentavano il piatto forte, il richiamo maggiore dei feroci e cruenti spettacoli dell’arena.
Tito – la cui nonna, Vespasia Polla, proveniva da Norcia – aveva voluto fortemente i giochi, perché il suo regno non era iniziato sotto una buona stella: due mesi dopo l’investitura si era verificata la spaventosa eruzione del Vesuvio (con la distruzione di Pompei, Ercolano, Stabiae ed Oplontis e la morte di migliaia e migliaia di cittadini e schiavi); quindi si era registrato un terribile incendio che aveva devastato Roma per tre giorni interi, bruciando numerosi quartieri (con il rovinoso crollo tra le fiamme persino del tempio di Giove); e per finire l’elenco delle catastrofi, sull’impero si era abbattuta una virulenta epidemia di peste. Siccome, tra l’altro, Tito non godeva di buona fama – veniva descritto come amante dei vizi, almeno in gioventù, sebbene in battaglia avesse mostrato discrete doti di guerriero e di comandante -, i giochi gli servivano per ingraziarsi le folle: “panem et circenses”, risultava per inveterata tradizione, la ricetta più semplice e più facile per conquistare il gradimento del popolo e per guadagnarsi simpatie. E anche per spazzare via le voci di menagramo che cominciavano a circolare tra la plebe, portata alla superstizione.
L’editor (cioè l’organizzatore degli spettacoli), per venire incontro alle pressanti esigenze della casa imperiale, aveva sollecitato il lanista (l’allenatore dei gladiatori) a schierare in campo i due combattenti migliori, fin dal primo giorno. Iniziare alla grande avrebbe fornito un viatico positivo e magari decisivo per il successo della manifestazione. La scelta cadde su Prisco e Vero. Già famosi per le glorie mietute e, come tutti i gladiatori vincenti, idolatrati dal popolo ed in particolare dalle donne, non solo della plebe, ma anche dalle matrone dell’aristocrazia, assiepate sulla parte più alta dell’anfiteatro, perché solo lassù le esponenti del genere femminile, popolane o nobili che fossero, avevano la possibilità di posizionarsi. Persino sopra l’anello riservato ai plebei. Senatori e cavalieri, le classi più agiate, prendevano posto, invece, nei primi due cerchi, i più vicini all’arena. Allo spettacolo inaugurale presenziò lo stesso Tito, con a fianco amici e familiari, fra cui il più giovane fratello, Domiziano, che gli succederà sul trono.
Singolare l’accoppiamento dei due gladiatori: non soltanto provenivano dalla stessa terra, la Mesia (attuale area danubiana, tra la Serbia e la Bulgaria, per intendersi), ma erano diventati amici – sebbene al primo incontro, del tutto fortuito, della loro esistenza, mentre si trovavo già in mano alle legioni romane, si fossero presi a pugni, pare per piccole beghe – ben prima di giungere a Roma come schiavi e, per la loro prestanza fisica, selezionati per diventare gladiatori. Dell’inaugurazione del Colosseo e dei cento giorni di festeggiamenti parlano sia Gaio Svetonio Tranquillo (69 dC – post 122 dC, dunque contemporaneo dei protagonisti), sia Cassio Dione (155 dC-253 dC), entrambi storici. Tuttavia, sull’avvincente scontro Prisco-Vero, l’unica testimonianza viene da un epigramma del poeta Marco Valerio Marziale (38 dC-104 dC) nel “Liber de spectaculis”, che – vissuto a quell’epoca in Roma, sebbene originario di Bilbilis, nell’odierna Catalogna – avrà seguito, appollaiato sugli spalti dell’anfiteatro, l’appassionante, emozionante duello.
Non è chiaro se Prisco combattesse da reziario (rete e tridente) e Vero da “secutor” (gladio e scudo), secondo lo schema usuale o se i due si affrontassero con identiche armature (spada ed egida). Di certo gli spettatori assistettero ad uno scontro terribile, estenuante, interminabile, nel quale, a turno, ora l’uno, ora l’altro sembrò sul punto di poter primeggiare ed imporsi. Gli erculei competitori sapevano bene di poter morire o per mano dell’avversario o, in caso di sconfitta, per decisione del pubblico (pollice verso). La sfida, pertanto, durò a lungo e senza esclusione di colpi, con i fieri avversari ansanti, sudati, sporchi di sangue – qualche affondo era andato a segno anche se non in maniera mortale – ma comunque determinati a non cedere per istinto di sopravvivenza e per orgoglio. Dopo ore di colpi, però, mentre erano avvinghiati e si stringevano uno contro l’altro, a mani nude, tentando in qualche modo di costringere l’avversario a cedere, Prisco e Vero alzarono l’indice in segno di resa (“ad digitum”, in lingua latina). E lo fecero, fatto del tutto inconsueto, in contemporanea.
Come comportarsi? Né gli spettatori, né l’imperatore sulle prime sapevano quale decisione assumere. Gli scontri nell’arena non finivano mai in parità: uno il vincitore, uno lo sconfitto (quasi sempre destinato a morire). Tito optò per una decisione umana, saggia (mentre Domiziano pare gli avesse suggerito di farli passare tutti e due per le armi): considerò entrambi vincitori, consegnando all’uno e all’altro palma e “rudis” (la spada di legno), dunque i simboli, rispettivamente, della vittoria e della liberazione dalla schiavitù. Dagli spalti si levò, spontanea, una calorosa ovazione. Il verdetto risultò gradito, ed in modo unanime, a tutti i settori dell’anfiteatro. Marziale sottolinea la decisione come segno di grandezza divina di Tito, anche se qualche critico considera l’affermazione del poeta una forma di adulazione, untuosa e lecchina, nei riguardi dell’imperatore.
Di Prisco e di Vero non si rintracciano altre notizie. Che abbiano accettato il premio e la libertà traspare dagli avvenimenti, altrimenti l’epigrammista lo avrebbe riportato. Tuttavia, contiamo su resoconti dai quali si scopre che, in altre circostanze, il vincitore aveva rinunciato al premio per poter continuare a vivere l’esperienza di gladiatore che regalava, in caso di successo, non solo fama, ma pure ricchezza. I combattenti dell’arena erano paragonabili – fatte le debite differenze – ai campioni del calcio (o degli sport maggiori) di oggi: notorietà, soldi a palate (almeno alcuni) e donne adoranti ai loro piedi. Sotto questo profilo nulla o ben poco, da allora, è mutato. Si conosce almeno un caso nel quale un gladiatore, dopo aver platealmente rinunciato alla libertà (ad un uomo libero non era consentito misurarsi nell’arena), arrivò, di vittoria in vittoria, fino al trentaquattresimo combattimento, nel quale s’imbatté in un avversario più forte di lui e trovò la morte. Vittima dell’azzardo, della ludopatia, del senso di invincibilità che talvolta subentra in chi si abitua ai successi. Tito – il destino riserva spesso, se non sempre, sorprese – morì, anzitempo, a 42 anni, il giorno dopo la cerimonia di chiusura dei fastosi giochi. Partì da Roma per raggiungere la tranquilla Sabina, terra degli avi paterni, per un periodo di riposo e, colto da febbri maligne, spirò. Il destino gli negò la possibilità di sfruttare, politicamente, il successo dei giochi.
Nessuno può considerarsi – nonostante l’antico proverbio citato da Gaio Sallustio Crispo affermi il contrario – fabbro della propria fortuna. Neppure un imperatore.
Elio Clero Bertoldi
Lascia un commento