PALERMO – Preziosa Salatino, classe 1980, calabrese di nascita, ma palermitana per scelta dal 2005: attrice, autrice e, soprattutto, operatrice culturale impegnata e poliedrica. Un’artista assai nota e apprezzata, unica e ‘preziosa’ nel panorama culturale e nel variegato tessuto sociale cittadino.
Vale la pena iniziare proprio dall’origine del nome, raro e impegnativo…
“Il mio nome ha un’origine familiare: sono nata a Rossano, un paesino calabrese in provincia di Cosenza e mia nonna paterna si chiamava così. Poiché sono la nipote primogenita, semplicemente mi toccava ereditarne il nome. Confesso che si è trattato di un nome ‘pesante’ e impegnativo, soprattutto da bambina: ‘non fare la preziosa’ oppure ‘preziosa di nome e di fatto’ , queste alcune delle tante battute che mi erano rivolte… Un nome così particolare mi ha imposto di mettere da parte la timidezza, perché, ad esempio, se chiamavano l’appello in classe l’attenzione si fermava su di me e su di me si posavano gli sguardi. Ho cominciato ad apprezzare di chiamarmi così quando, dopo la maturità classica, mi sono trasferita a Roma, per frequentare Storia del Teatro e dello Spettacolo all’Università di Roma 3. Lì ho iniziato a fare teatro: chi mi conosceva era incuriosito e attratto dal mio nome e, addirittura, mi veniva chiesto se non fosse un nome d’arte! Allora ho realizzato quanto fosse adatto alla mia scelta professionale e di vita”.
Dunque, come dicevano i Latini, nomen omen: in un nome così evocativo e inusuale era forse già iscritta una vocazione. Che matura quando e come?
“Il mio interesse per il teatro nasce a sedici anni, quando a scuola, al liceo, partecipo a un laboratorio condotto da Ciccio Tedesco (formatore, animatore ed educatore di strada, counselor in teatro-terapia), condotto con la metodologia del ‘Teatro dell’Oppresso’: lì noi studenti potevamo esprimerci e comunicare il malessere per i nostri vissuti, il nostro disagio… Ho avuto una sorta di folgorazione: ho capito allora che il teatro non ha solo una valenza artistico-estetica, ma è anche qualcosa che può migliorare e cambiare la realtà, sia dei singoli che a livello sociale. Ho intuito in quell’occasione il potere trasformativo del teatro e ho deciso che quello sarebbe stato il mio percorso umano e professionale”.
Da qui la decisione di studiare teatro a Roma. La tua formazione e le tue prime esperienze?
“Intanto non è stato facile nel 1999 trasferirmi a Roma per studiare. A Roma, per vivere e mantenermi agli studi, ho sempre lavorato: ho fatto la cameriera, la baby sitter, la guardarobiera… E studiavo moltissimo: collezionavo 30 e lode sia perché mi appassionavo alle varie discipline sia perché dovevo avere una media alta per mantenere la borsa di studio prevista per i fuorisede. A parte il Dams, non ho seguito una formazione accademica, ma ho frequentato vari corsi e laboratori imparando il più possibile da grandi professionisti: l’uso della voce e del canto dallo specialista Mauro Tiberi, commedia dell’arte e mimo corporeo da Michele Monetta, il teatro di narrazione da Marco Baliani, Vincenzo Pirrotta, Ascanio Celestini e Mimmo Cuticchio. Nel 2001, prima della laurea, ho un’opportunità straordinaria: studiare per un anno a Parigi con l’Erasmus…”.
E a Parigi c’è un incontro importante…
“A Parigi, oltre a studiare presso l’Università Paris 8, frequento diversi seminari presso il Centre Théatre de l’Opprimé e ho l’opportunità di lavorare direttamente con Augusto Boal e con suo figlio. La fine del 2001 e il primo semestre del 2002 sono intensi e fecondi: imparo il francese, faccio esperienza diretta di Teatro dell’Oppresso, comincio a scrivere la mia tesi che avrà questo titolo: Il teatro dell’Oppresso nel passaggio dall’America Latina all’Europa”.
Chi è Augusto Boal e che cos’è il ‘Teatro dell’oppresso’?
“Sebbene Boal negli anni ’80 abbia percorso l’Italia presentando il suo metodo e realizzando spettacoli e laboratori per un pubblico assai vasto, il Teatro dell’Oppresso, apprezzato in ambito sociale ed educativo, è quasi ignorato dal mondo teatrale accademico. Nel mio saggio ‘Il teatro dell’oppresso nei luoghi del disagio – Pratiche di liberazione’ – scritto nel 2011, grazie al concorso letterario ‘Giri di Parole’ – racconto la storia di questa sorta di ‘rivoluzione culturale’ (e politica) combattuta coi mezzi del teatro, che dal Brasile, in cui è nata, si è diffusa nell’arco di 50 anni in decine di Paesi in tutto il mondo. Il nome ‘Teatro dell’Oppresso’ (TdO), è piuttosto infelice, si dovrebbe dire invece ‘Teatro per la liberazione dell‘Oppresso’. Si tratta di un metodo nato sotto la dittatura brasiliana negli anni ‘60 e diffusosi in Europa dagli anni ’80 in poi, a seguito dell’esilio forzato del suo fondatore Augusto Boal, regista brasiliano esiliato in Francia negli anni ’70 a causa della dittatura esistente nel suo Paese, e morto a Rio de Janiero nel 2009, nel Brasile ormai democratico. La metodologia teatrale da lui elaborata, il cosiddetto Teatro dell’Oppresso, è una forma di teatro che oggi si muove in una zona di confine: fra politica e terapia, fra teatro e animazione sociale. Il nome è mutuato dalla Pedagogia degli Oppressi di Paulo Freire, pedagogo brasiliano non molto conosciuto molto in Italia. In origine il TdO nasce come teatro politico, sociale, popolare, come atto di protesta al regime dittatoriale, e strumento artistico di liberazione: si diffonde fra i contadini latinoamericani analfabeti (con la tecnica del Teatro Immagine, che si basa sulla creazione di immagini create modellando il corpo dell’attore), fra i dissidenti clandestini (con la tecnica del Teatro Invisibile, che consiste nella preparazione di una scena da svolgersi in un contesto reale, non teatrale, con lo scopo di stimolare un dibattito su temi attuali davanti a persone che ignorano di assistere a una finzione”.
Al ritorno a Roma, nel 2003, la laurea a pieni voti, un biennio di formazione a Reggio Emilia presso la Cooperativa Giolli e diversi seminari presso il Centre Théatre de l’Opprimé di Parigi, il titolo di operatrice di Teatro dell’Oppresso. Anche un anno di Servizio Civile. Ma, nel 2005, il trasferimento a Palermo. Come mai?
“Nel 2004 ho occasione di venire a Palermo per fare varie attività con Mimmo Cuticchio, puparo e ‘cuntista’ fondamentale per la mia formazione: Palermo mi ha subito folgorata. Sono stata attratta dalla sua atmosfera, dalla sua ricchezza culturale, dai suoi spazi, dalla sua gente. In città ho conosciuto anche Sergio Di Vita, operatore e formatore del Tdo, che mi diede allora tutto il necessario supporto materiale per potere vivere in una città nuova. Ho sentito che Palermo sarebbe stata la mia meta elettiva, la mia Itaca…”.
E poi, la conoscenza con il regista Emilio Ajovalasit, con cui inizia un fecondo sodalizio artistico e affettivo. Insomma, vi sposate! E nel 2006 fondate il Teatro Atlante. Cosa c’è dietro a questo nome e a questa – ormai quasi ventennale – esperienza teatrale, culturale e sociale?
“Il nome di quest’associazione culturale è legato al Mago Atlante, che nell’Orlando Furioso crea un castello incantato per attirarvi i paladini, mentre il logo richiama Atlante che, secondo la mitologia greca, è costretto da Zeus a reggere la volta celeste. Il nostro primo spettacolo è stato ‘Il principe e la rondine’, di Oscar Wilde, uno spettacolo per bambini. E l’attenzione verso bambini e ragazzi non è mai venuta meno: abbiamo fatto ogni tipo di laboratori teatrali, specie con i ragazzi più disagiati, soprattutto quelli del quartiere Albergheria. Da allora abbiamo continuato con attività teatrali e laboratori nelle scuole e nelle piazze, in carcere e in strada, per grandi e bambini: quindi, dal 2006 ci occupiamo di produzione, formazione e ricerca teatrale, con uno sguardo attento verso la realtà che ci circonda, in una continua contaminazione fra teatro e vita. Collaboriamo con scuole, associazioni, teatri, singoli artisti, enti pubblici e privati sul territorio cittadino e nazionale: insomma, una rete di persone con cui negli anni si è costituita una vera e propria comunità. Nel 2011 abbiamo preso in affitto una piccola sala nel centro storico di Palermo che è diventata luogo di aggregazione e presidio culturale. Nel 2019, incoraggiati dal crescente numero di allievi e di spettatori, abbiamo potuto acquistare una nuova sede, uno spazio un po’ più grande nel quartiere storico della Kalsa, in via Vetriera: lì, oltre a una sala per i laboratori, abbiamo uno spazio scenico con gradinata che può accogliere fino a 70 persone, comunque una dimensione quasi ‘intima’ che consente di valorizzare il rapporto ravvicinato fra attori e spettatori. Date le piccole dimensioni dei nostri spazi, gli aspetti più comunitari del nostro fare teatro hanno sempre trovato il loro naturale palcoscenico in strada, nelle piazze, ma anche negli ospedali e in ogni luogo disponibile ad ospitare la nostra attività”.
Avete poi realizzato i ‘Classici in Strada’…
“Questa esperienza nasce quando sono stata chiamata a tenere dei laboratori presso un liceo scientifico palermitano. Discutendone con i professori Isabella Tondo (docente di italiano in quel liceo) e Andrea Cozzo (docente universitario di letteratura greca) nasce l’idea di organizzare degli spettacoli teatrali all’interno delle scuole o direttamente nelle piazze e nelle strade, perché tutti – anche chi non aveva mai assistito a una tragedia in un teatro come quello di Siracusa – potesse fruire dei Classici, appunto in Strada. Così nel 2013 a Ballarò, nel quartiere Albergheria di Palermo, abbiamo portato per la prima volta in strada l’Iliade e l’Odissea, in collaborazione con gli studenti del liceo scientifico ‘Benedetto Croce’ e con gli alunni della scuola primaria ‘Francesco Paolo Perez’. In quell’occasione abbiamo anche utilizzato una delle tecniche del Teatro dell’Oppresso, il Teatro Forum: mentre si metteva in scena un conflitto (ad esempio, nell’Iliade, quello tra Agamennone e Achille, o nell’Odissea, il dramma di Penelope che attendeva da anni il ritorno di Ulisse), un conduttore coinvolgeva persone del pubblico chiedendo che strategia avrebbero utilizzato, se fossero stati al posto del personaggio in scena… C’è stato un grande coinvolgimento partecipativo. Dal 2013 a maggio/giugno scorso, la rete di insegnanti, scuole e persone coinvolte si è allargata fino a comprendere oggi 25 Istituti di ogni ordine e grado, insieme ad associazioni di volontariato, soggetti privati, con il patrocinio del Comune di Palermo e il sostegno dell’USR (Ufficio Scolastico Regionale) di Palermo. Abbiamo portato in piazza il Decameron, l’Orlando Furioso, le Supplici, l’Antigone… Siamo riusciti a mescolare, a mio avviso in modo fecondo e costruttivo, persone, esperienze, saperi, nei quartieri anche dimenticati della città”.
Avete quindi portato i ‘Classici in strada’ anche in carcere: dove e quando?
“Per tre anni consecutivi, nel 2015, 2016, 2017 – in collaborazione con l’associazione AS.VO.PE. che si occupa di volontariato nelle carceri – ho condotto laboratori teatrali all’interno del carcere palermitano dell’Ucciardone, con un gruppo di detenuti che hanno recitato su testi di Omero e di Esopo. ‘Possiamo dirla in siciliano questa battuta?’ – mi chiesero un giorno dei detenuti. Lasciai che si appropriassero di Omero e lo rendessero dicibile anche in dialetto siciliano. Ripetevano le parti nelle loro celle. Gli spettacoli, a cui hanno assistito educatori, magistrati, la direttrice del carcere e varie persone esterne, furono un successo. I detenuti, durante quelle esperienze teatrali, si sono sentiti protagonisti, forse per la prima volta ‘attori positivi’ del loro futuro. Fare teatro in carcere è stata la mia esperienza umana e professionale più arricchente e difficile: non c’è stato mai alcun problema nelle prove con i detenuti, ma ovviamente il mio dispendio di attenzione e di energie era enorme e uscivo assai provata dall’Ucciardone”.
Come mai i ‘Classici in strada’ non sono tornati in carcere dopo il 2017?
“Il mondo del carcere e di chi ci opera è complesso, difficile, pieno di timori e di equilibri difficili da gestire. C’è stato il Covid e c’è stata la paura, da parte dei responsabili, di rischiare troppo ripetendo il progetto. Il mio sogno è che l’esperienza possa un giorno continuare: magari con laboratori integrati che includano insieme la presenza, oltre che dei detenuti, anche di educatori e di poliziotti penitenziari”.
Ritornando a oggi, cosa bolle in pentola?
“L’iniziativa futura che mi sta più a cuore ha a che fare con la Poesia con la P maiuscola: sto lavorando alla terza edizione del Festival di Poesia Performativa, che dovrebbe tenersi a Palermo il 22, 23 e 24 marzo 2024. Nonostante le difficoltà del periodo pandemico, la prima edizione del Festival fu realizzata nell’ottobre del 2021 ai Cantieri culturali della Zisa, tenuta a battesimo da un ospite d’eccezione: il poeta Bruno Tognolini (autore della Melevisione e di varie raccolte di rime per grandi e bambini). L’idea è nata nel 2013, quando, dopo un progetto sulla poesia orale condotto in un Istituto superiore, è stato realizzato l’evento ‘Poesie gratis’: il 21 marzo, per la Giornata Mondiale della Poesia, davanti al Teatro Massimo di Palermo, una ventina di studenti diciassettenni fermava gli ignari passanti chiedendo: ‘Posso regalarti una poesia?’ e recitandola così occhi negli occhi. Tra gli studenti, ce n’era uno davvero appassionato, Giuseppe Di Vincenzo (oggi medico specializzando in Psichiatria a Ferrara). Anche grazie a lui, l’evento della ‘Poesia gratis’ si è ripetuto il 21 marzo puntualmente nei dieci anni a venire. Giuseppe e io nel 2020 decidiamo di pubblicare le nostre poesie in un testo dal titolo ’64 anni’ (la somma dei miei 40 di allora e dei 24 di Giuseppe), per diffondere e condividere la forza della poesia orale e performativa e finanziare il progetto del Festival. I lettori hanno comprato il libro, sostenendo economicamente il progetto e così, nel 2021 è nato P/Atto – Poesia in Azione. Se ci pensiamo, la parola ‘Poesia’ viene dal greco ‘Poieo’ che significa proprio fare, creare…”.
Infine, un consiglio a chi vuole fare l’attore/attrice di teatro?
“Intanto deve essere chiara la differenza di base tra attori di Cinema e attori di Teatro: facendo solo teatro non si diventa quasi mai, anzi mai, né ricchi né famosi. C’è poi una formazione diversa: per il cinema si fanno specifiche scuole di recitazione e poi provini, il casting, cioè la selezione per prendere parte a un film… Per fare teatro, soprattutto il teatro come lo intendo io, con una ricaduta sociale, bisogna mettere da parte l’esaltazione del proprio Ego, studiare tantissimo, frequentarlo tanto, crearsi un gusto, cercare poi i propri maestri, più che fare rigidi percorsi accademici. Bisogna saper usare il corpo e la parola.Chi vuole fare l’attrice di teatro, a mio avviso, deve essere mosso da una forza, da un’energia precisa e da una sorta di necessità: una necessità al contempo sociale e personale, la volontà di migliorare sé stessi e il proprio contesto sociale. Oggi il teatro di massa ha un po’ dimenticato, a mio avviso, questa vocazione originaria, concentrandosi solo sulla bellezza estetica. Con il Teatro Atlante proviamo a mettere assieme bellezza, consapevolezza e possibilità di cambiamento”.
Buon lavoro e grazie di cuore, Preziosa. Che merita di essere salutata parafrasando al femminile la chiusa di un poema di Brecht: “Non dite: quella donna è un’artista. Dite piuttosto: è un’artista perché è una donna”.
Maria D’Asaro
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