NUORO – “Pompìa”, o “Citrus mostruosa”, è un agrume dalla buccia spessa, ruvida e deforme. Non se ne conosce l’origine né si sa con certezza quando questo frutto prelibato sia comparso in Sardegna, forse in età medievale. Dalle fonti si evince che è una varietà di limone endemica in particolare nel comune di Siniscola. Le origini della Pompia non sono ancora chiare; la teoria più accreditata è che si tratti di un ibrido tra cedro e limone, anche se alcuni studiosi parlano di un ibrido tra cedro e pompelmo. È certo, comunque, che la Pompìa sia uno degli agrumi più rari di tutto il mondo, certamente tra i più grossi che si conoscano. La circonferenza del frutto, di forma irregolare, può raggiungere i 70 cm di lunghezza, l’epicarpo, ossia la buccia, è di colore giallo, più intenso o ambrato nei frutti a maturità avanzata, e al tatto risulta essere molto rugoso. La polpa è costituita da 13-14 logge ben separabili. Appare di colore giallo chiaro, con una tessitura grossolana e vescicole grandi e tozze. Il succo contenuto nel frutto è modesto, così come il tenore zuccherino, mentre l’acidità è elevata e il numero dei semi è contenuto entro i valori medi.
Sa Pompìa (come si dice in sardo) ha un fortissimo legame storico con il territorio. Deve la sua sopravvivenza al fatto che nel solo comune di Siniscola questa pianta ha trovato utilizzo nella preparazione dei dolci tradizionali come ”sa Pompìa intrea” e ”s’aranzada”. Questo frutto un tempo era riservato a pochi, e veniva offerto solitamente in occasioni speciali o nelle feste più importanti. Oggigiorno, invece, è un frutto e un dolce molto diffuso e conosciuto e possiamo trovarlo nelle pasticcerie non solo del centro costiero di Siniscola. Diversi anni fa, sa Pompìa era il regalo più esclusivo e gradito per i testimoni di nozze ed i padrini dei propri figli, ed era considerato quasi un bene di lusso che solo pochi si potevano permettere poiché la sua preparazione esigeva molte ore di lavoro e ingredienti costosi quali il miele e lo zucchero, fatto che ne impediva in passato una sua grande distribuzione.
Il frutto, mangiato al naturale, risulta asprigno e non tanto piacevole a tutti i gusti, ma lavorato e trasformato in dolce diventa una vera e propria prelibatezza anche per i palati più raffinati. “Sa Pompìa intrea” è un delizioso dolce, antico e di complessa e laboriosa preparazione. Sono necessarie almeno sei ore di lavorazione e di destrezza per lavorare i frutti. Si inizia grattando via la parte superficiale della scorza in modo che rimanga l’albedo intatto, lo strato interno, in genere di colore bianco, della buccia caratteristica degli agrumi. Dopo aver praticato un piccolo foro in corrispondenza del picciolo, si libera la buccia dalla polpa con l’aiuto delle dita o di un cucchiaino, cercando di non danneggiare o rompere l’involucro che contiene gli spicchi. Si ottiene una sorta di palloncino bianco vuoto che viene dapprima lessato, per liberarlo dall’eccesso di acidità e dall’amarognolo, e poi immerso in una teglia contenente dell’abbondante miele, solitamente il millefiori.
Dopo questa prima fase preparatoria inizia quella della cottura dei frutti che, ricoperti di miele, vengono cucinati a fuoco lento. Con un mestolo di legno e tanta delicatezza si gira di tanto in tanto il composto riempiendo costantemente di miele l’interno dei ”palloncini” fino a quando essi non assumono un colore rosso ambrato. Il miele serve per candire i frutti, smorzarne l’acidità pur lasciando al dolce un leggero e piacevole retrogusto amarognolo.
L’altro dolce che in Sardegna abbonda nelle tavole nei giorni di festa è “s’aranzada”. Se nella zona della Barbagia è fatta con scorze di arancia o limone, a Siniscola l’ingrediente base del dolce è sempre sa Pompìa. La scorza viene tagliata a striscioline larghe circa due centimetri, bollita e poi distesa su un tavolo per essere asciugata. Dopo questa operazione l’agrume viene versato in un tegame di rame contenente del miele bollente e delle mandorle, intere o tagliate finemente nel senso della lunghezza. Il tutto viene fatto cuocere a fuoco lento mescolando continuamente per tre ore circa con un mestolo di legno fino a che il frutto non assume un colore tra il giallo ed il marrone. Solo allora “s’aranzada” potrà essere dosata in appositi pirottini e, una volta sfreddata, degustata con piacere.
Ma sa Pompìa è un frutto assai versatile, infatti viene largamente adoperato anche per la produzione di confetture e, addirittura, di liquori. Per ottenere uno squisito liquore occorre una preparazione molto lunga che si inizia con la macerazione delle scorze nell’alcool per 30/40 giorni. Una volta trascorso questo tempo si filtra l’alcool con una garza di cotone e si conserva solo il liquido, ma non la scorza. Successivamente si fa bollire dell’acqua con dello zucchero e lo si fa sciogliere per creare una sorta di sciroppo che, una volta fatto raffreddare, viene unito all’alcool. Solo allora il liquore è pronto per essere degustato come piacevole digestivo.
Il frutto della Pompìa in passato veniva utilizzato spesso per altri scopi oltre che per quello alimentare. La polpa sovente veniva usata per lucidare il rame, l’ottone e l’oro perché il suo succo (che è molto acido) corrode le ossidazioni ed era utilizzato anche per la pulizia delle mani in quanto ottimo detergente. Inoltre questo frutto ha delle caratteristiche uniche in quanto ricchissimo di oli essenziali. Oggi viene perciò impiegato nel campo della cosmesi e dell’erboristeria in quanto sa Pompìa è un ottimo ricostituente ed è un rimedio naturale per curare tossi, mal di gola e raffreddori. Una giovane start up sarda, la Phareco, con sa Pompìa ha persino brevettato un olio essenziale in grado, secondo i suoi sviluppatori, di curare infezioni dell’apparato genitale femminile, dell’apparato digestivo e di quello respiratorio.
Ecco perché sa Pompìa è l’agrume sardo, unico al mondo, buono da mangiare e ottimo come medicina alternativa.
Virginia Mariane
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