PERUGIA – Il condottiero Niccolò Piccinino (1386-1444) viene considerato uno dei capitani di ventura più abili e famosi del Quattrocento. Nato da oscuri popolani (il padre macellaio di Porta Sant’Angelo di Perugia) salì ai massimo degli onori tanto da conquistare i titoli nobiliari di conte e poi di marchese e da aggiungere al suo cognome quello ducale dei Visconti e addirittura quello reale D’Aragona, essendo stato adottato, con tanto di documento ufficiale, dal re di Napoli, Alfonso.
Su questo grande personaggio di Perugia (nato, per pura casualità, a Caligiana di Magione: motivi di sicurezza in quanto il padre, fazione Beccherina, era nel mirino dei Raspanti)) ha pubblicato un interessante volume (“Niccolò Piccinino, storia di un capitano di ventura – Dal castello perugino di Caligiana al sogno del ducato di Milano”) Luciano Taborchi, che lo ha presentato alla Libreria grande, con l’intervento di Mario Squadroni e l’appoggio di diverse associazioni perugine rappresentate da Milena Zucchini (Rione di Porta San Pietro), Alvaro Azeglio Mancioli (Pro Ponte San Giovanni), Sirio Pascolini (Pianello).
Piccolo di statura (da cui il soprannome di Piccinino), ma agile e forte di corpo, Niccolò fuggì di casa ancora minorenne per darsi al mestiere delle armi. Iniziò con Alberico da Barbiano e la Compagnia di San Giorgio, ma trovò il suo maestro vero nel concittadino Braccio Fortebracci, al quale restò sempre fedele, tanto da proseguire la sua scuola militare ed ereditare il suo esercito (restò accanto ai figli del suo capo, Oddo e Carlo, e al nipote Niccolò della Stella).
Molto si è discusso del comportamento del Piccinino nella battaglia dell’Aquila. Lasciato, infatti, a coprire le spalle di Braccio con un buon numero di cavalieri davanti alle mura della città, quando Niccolò vide il suo comandante in netta difficoltà e respinto dal più numeroso esercito avversario, abbandonò la consegna e si fiondò a prestare soccorso al suo generale. Mossa infelice, perché i bracceschi furono presi in mezzo a tenaglia dai nemici (dalla città irruppero sul campo di battaglia cinque-seimila aquilani) e persero lo scontro, in quel momento ancora incerto. Non fu però tradimento come alcuni storici hanno sostenuto: solo desiderio di prestare aiuto a Braccio. Se quel giorno si registrarono infedeltà o diserzioni sospette si dovrebbero indirizzare le ricerche sull’abbandono del campo di battaglia di alcuni capitani come Malatesta Baglioni (marito di una nipote di Braccio) e di alcuni reparti come i 400 balestrieri perugini, tutti novizi, sotto il comando di un Baldeschi. Ma, più probabilmente, la strategia del Fortebracci in quella occasione non funzionò – sebbene avesse dato buona prova nello scontro di Sant’Egidio-Collestrada nel 1416, dove anche in quel caso, il condottiero aveva piazzato un cospicuo contingente militare sul Tevere a Ponte San Giovanni per impedire che i perugini (rimasti, invece, inerti all’interno delle mura cittadine) lo potessero sorprendere alle spalle – per la confusione e il rumore della battaglia e la gran polvere sollevata dalle cavallerie che impedì ai reparti di riserva di sentire e di vedere i segnali fatti con i vessilli e lanciati con le trombe, che pertanto non intervennero nei tempi stabiliti dal piano di battaglia.
Dopo la morte di Braccio, il Piccinino passò al servizio di Firenze e quindi del Visconti di Milano. I fiorentini, che pure avevano ottenuto rilevanti risultati in Romagna dalla condotta del perugino, se la presero così tanto per il passaggio del capitano ai servizi del ducato lombardo (ma avrebbero potuto pagargli subito la condotta invece di farlo attendere troppo a lungo) da condannare a morte in contumacia Niccolò, con pena mai cancellata e con disegni osceni ed ingiuriosi sulle pareti dei maggiori palazzi cittadini. Addirittura organizzarono diversi complotti per ucciderlo, tutti sventati, per fortuna e per astuzia del Piccinino. I grandi successi nel centro e nel nord Italia e le rare sconfitte (come nella battaglia di Anghiari) si potranno rivivere leggendo l’interessante e documentatissimo, pure di immagini, libro di Taborchi. Vale sottolineare, in questa sede, alcune vicende vissute del condottiero. Nella prima, accerchiato da un potente esercito veneziano, per sfuggire alla cattura si fece trasportare in un sacco, come fosse il cadavere di un morto, da un gigantesco servo tedesco, a lui legatissimo, attraversando l’accampamento nemico, col solo stratagemma del suono di un campanello per avvertire i presenti che si trattava di un corpo in decomposizione da sotterrare. E l’impresa gli riuscì alla grande.
La seconda, di sicuro non commendevole, riguarda l’uccisione della prima moglie, Gabriella, che aveva partorito un figlio (Francesco) dopo undici mesi di assenza del marito, impegnato in guerra. Per vendetta, il geloso Piccinino tornato a casa, avrebbe fatto salire la moglie ignara su un cavallo bizzoso che la sbalzò a terra e la trascinò fino a farla morire. Il condottiero, più tardi, avrebbe voluto impalmare la figlia del Visconti, Bianca Maria. Ma questo disegno, come quello di diventare duca di Milano, pure coltivato negli anni finali della sua vita, non gli riuscì. Intanto perché era tutt’altro che un bell’uomo (anzi era proprio brutto nelle fattezze del volto e sfregiato, sia nel viso sia nel corpo da numerose ferite, una delle quali lo aveva pure zoppo nella gamba sinistra) e poi perché, nonostante la fedeltà dimostrata al Visconti, non riuscì mai – forse perché valoroso sì nelle armi, ma illetterato e rozzo nei modi – ad entrare nelle grazie piene e complete di Filippo Maria Visconti, nobile e ricercato, anche se spregiudicato e crudele. Il destino volle che a conquistare il ducato lombardo fosse, qualche anno più tardi dalla morte del Piccinino (stroncato dall’idropisia, cioè da accumuli di liquidi sierosi in organi come cuore, polmoni e reni), il suo più acerrimo rivale: quel Francesco Sforza con cui si era misurato più volte sui campi di battaglia (talvolta anche alleato e sotto la stessa bandiera), a cominciare dallo scontro fatale de L’Aquila.
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