NAPOLI – E’ sempre più ricorrente il tentativo maldestro di riempire il vuoto delle nostre giornate attraverso apprezzabili tentativi basati sull’operosità, su una conoscenza generica della realtà, e, quindi, su una pseudo cultura intrisa di nozionismo. Sembra che ognuno sia soddisfatto perché carico di informazioni (storiche, politiche, di ogni genere) senza la preoccupazione di porsi domande su una letterale assenza di giudizio su questioni che necessiterebbero averle. Il dramma è che abbiamo chi giudica al posto nostro; dalla televisione a Facebook, sembra che un giudizio, innato nei nostri cuori, sia sostituito da ciò che la mentalità dominante suggerisce. Ma quello che è peggio, in un periodo come questo, rinchiusi e connessi, è l’adeguare la nostra tensione, i nostri desideri, la nostra voglia di vivere a ciò che scolasticamente viene definito “obiettivo minimo”. L’assenza di un’educazione all’ascolto, al rispetto e la crisi che determina in noi l’opinione altrui, più che portare ad interrogarsi su quanto si è privi, di quanto si è mancanti, porta paradossalmente ad una sorta di “rigonfiamento” del petto e della mente in una illusoria e presunta posizione di completezza.
A questi falsi ideali basati su una effimera conoscenza si aggiunge la mannaia, grossolanamente manipolata, del giudizio più in voga. Tutto è opinabile, tutto è mistificabile, tutto è “dal mio punto di vista” e, poiché è facile non porsi domande ma blaterare, ogni aspetto del presente o del passato diventa figlio del pensiero “più commerciabile”. E allora sentenze su tutto ciò che capita sotto tiro: uomini politici, personaggi e periodi storici, movimenti, correnti filosofiche, astraendosi magistralmente da una posizione personale stabile e certa del sé.
Sembra che permanga “un sospetto sulla consistenza ultima della realtà: tutto finisce in niente, anche noi stessi”. Un nichilismo che, come sottolinea J. Carron ne “La bellezza disarmata” si presenta come “un sospetto sulla positività del vivere, sulla possibilità di senso e di una utilità della nostra esistenza, che si traduce normalmente nella percezione di un vuoto che minaccia tutto quello che facciamo determinando una sottile disperazione, anche in vite indaffarate e piene di successo con agende fitte di appuntamenti”.
A partire da una personale, balbettante posizione ci si rinchiude in un ambito di “vaghe conoscenze”. Sembra sia importante non il Sapere ma l’avere dati, conoscere tutto senza la percezione di un contesto, di un “perché”. Non interessa conoscere per noi stessi, per favorire una posizione di fronte a tanti fatti, carpirne lo scopo, l’origine, il fine. Importante è l’accumulo di nozioni! Ma questo, sottolinea bene Carron, ha un’origine nell’insicurezza, nell’ansia esistenziale che fa concepire come ragione della propria consistenza le cose che si fanno culturalmente o organizzativamente. “Ma tutta l’attività culturale e tutta l’attività organizzativa non diventano espressione di una fisionomia nuova, di un uomo nuovo” (don Luigi Giussani).
Inevitabilmente un giudizio sulla realtà, sulle cose, su noi stessi non può che essere generato da un rapporto che esalti il nostro desiderio primordiale, l’origine. Affannarsi a giudicare il mondo, perdendo di vista l’io, crea solo solitudine e disorientamento, un accumulo di sensazioni anche belle ma profondamente asettiche. Occorre utilizzare la ragione non come misura ma come finestra spalancata di fronte all’inesausto richiamo del reale. La conseguenza è la riduzione della percezione di ciò che ci accade, di ciò che ci è accaduto. Giudicare eventi storici, uomini ed eventi senza vivere, oggi, una dimensione personale della propria vita, porta ad una estrema solitudine, ad un allontanamento dal reale. Ad una destituzione del visibile.
Innocenzo Calzone
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