ROMA – Nascosto in un angolino, sopravvive tra pochi cultori il concetto di “classico”, termine per molti sinonimo di “obsoleto” e che invece conserva nella sua radice molte sorprese. Il consumismo è ormai una macchina che produce opere a getto continuo: libri, canzoni, film. Oggi, se il prodotto non è del tutto nuovo sembra non avere valore e viene surclassato presto da ciò che invece lo è. Questa è la regola generale, ma non per tutto – né per tutti – funziona così. Perché, appunto, l’umanità ha per sua necessità, da sempre, escogitato dei criteri per mettere ordine alla produzione del suo intelletto e questi criteri le hanno permesso, in varie epoche e in vari momenti della storia, di stabilire per la propria formazione dei punti di riferimento: questi si chiamano “classici”.
Niente a che fare con le odierne esigenze di mercato che sparano titoli nelle vetrine delle librerie, o con le mode che hanno bisogno di sfornare qualcosa di nuovo ad ogni stagione pur di invogliare al consumo. No. Il classico va oltre. Chi ne fruisce non lo divora ma lo assapora. Esso è stabilito da un pubblico “universale” che sa riconoscere il valore di un libro, di una musica o di un dipinto perché se ne sente parte, ci stabilisce – come si direbbe oggi – una connessione. E questo stato di forte emozione – che può essere un dolore o una gioia – suscitata, agita, messa in atto e quindi “attuale”, è ciò che rende immortale un’opera: la classifica tra gli scaffali dell’umanità e rendendola contemporanea, appunto, le dà il titolo di classico.
Quest’opera non deve essere necessariamente antica per avere questo ruolo, anche se purtroppo questo concetto viene spesso associato con l’idea di vecchio. Ci sono libri, canzoni, film recenti che ci fanno vibrare toccandoci corde profonde pur non avendo secoli di vita perché hanno in sé un’energia che non scompare alla sua prima fruizione ma si ripete, in modi sempre diversi, alla seconda, terza, quarta rilettura. Fino all’infinito. Questo vuol dire essere classico. Ecco perché non smettiamo di rileggere Tolstoj e Dostojevski e rimaniamo così coinvolti dalle vicende di padre Sergji e di Raskolnikov, oppure risfogliando le pagine di Madame Bovary speriamo ogni volta che la sua vita sconclusionata prenda una piega migliore: ci sentiamo, in fondo in fondo, come questi protagonisti, ci confrontiamo con loro. Il fatto è che dentro quelle storie ci troviamo le nostre che risuonano, ci orientano, ci fanno crescere e, in una parola, ci rendono consapevoli di esistere e di dover dare un senso alla nostra esistenza.
“Man mano che si legge appare sul nostro viso l’espressione di un cercatore d’oro – dice Vito Mancuso, teologo, editorialista e scrittore – perché quello che è contenuto nelle parole è meraviglioso, oltre che un balsamo per le nostre ferite”. Mancuso, che integra la propria formazione con la meditazione, ha suscitato grande attenzione da parte del pubblico per i suoi libri e un pensiero non sempre in linea con le gerarchie ecclesiastiche ma molto vicino alle esigenze spirituali dei lettori. Molte delle sue conferenze e dei suoi libri sono dedicati all’importanza delle parole e soprattutto dei classici che lui definisce come quei compagni pronti a soccorrerci nel momento del bisogno per tutta la vita. “Ci sono degli autori – ha spiegato in una delle sue conferenze – verso i quali noi proviamo riverenza, stima e la stima, al contrario del consenso, non si può comprare perché essa può sorgere solo spontaneamente in chi sentiamo vicino con la mente e con il cuore e, a volte, questo succede con autori vissuti secoli prima di noi”.
E poi c’è la questione della bellezza. Se il classico, infatti, ci lega a se stesso per il contenuto, non meno importante è lo stile. Questi due valori, se sono in equilibrio tra di loro, danno vita a qualcosa di originale, unico, che si offre al lettore come un’esperienza attraverso cui scendere sempre più nel profondo della propria conoscenza. E’ a questo punto che un classico diventa tale. La lettura, l’ascolto di una musica o la visione di un quadro sono come una terapia dalla quale si esce cambiati, arricchiti, migliorati.
“Più noi diventiamo capaci di approfondire noi stessi – sottolinea Mancuso – e più vogliamo andare avanti in questo cammino di conoscenza, più diventiamo migliori e più sentiamo il bisogno di frequentare le opere classiche”. E così, tra chi questo percorso lo individua e lo persegue, si stabilisce una sorta di dialogo silenzioso, una condivisione sotterranea pronta ad emergere in un incontro casuale da cui può scaturire, fortuitamente, una nuova storia da raccontare o, semplicemente, un nuovo finale per un’opera già scritta, una nuova vita. E’ in questo la modernità dei classici: di sapersi rinnovare continuamente.
Gloria Zarletti
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