TARANTO – I miei nonni materni abitavano in un appartamento con due balconi: uno si apriva sulla strada, l’altro, opposto al primo, sul lato lungo del perimetro di una corte interna a forma rettangolare. Anche i palazzi accanto avevano due balconi, con quello esterno su due vie parallele tra loro e quello interno sui lati corti del rettangolo. Sull’altro lato lungo era stata costruita una palazzina un po’ più bassa, con solo finestre, poste su entrambi i fronti, che affacciavano su due corti equivalenti: una sorta di setto utilizzato per dividere in parti uguali uno spazio quadrato troppo ampio. A me, bambino di tre-quattro anni, era precluso il balcone esterno, forse perché la presenza dei vasi di gerani faceva temere che mi arrampicassi sulla ringhiera in ferro e mi lanciassi nel vuoto. Il balcone interno non aveva vasi e lì potevo andare.
Mi incuriosiva quella palazzina bassa, con le finestre sempre aperte per far entrare un po’ di luce, attraverso le quali potevo osservare scene di una vita domestica diversa da quella a me nota. Proprio di fronte al balcone dei miei nonni, un po’ più in basso, abitava una famiglia di quattro persone: un uomo, una donna e due bambini, un maschio e una femmina, che avevano qualche anno più di me. Anche le due finestre di quell’abitazione erano sempre aperte, tranne che all’ora di pranzo: a cena non so, perché nel tardo pomeriggio i miei genitori mi venivano a prendere per tornare a casa, ma giurerei che le chiudessero anche in quell’occasione. La finestra di sinistra, rispetto al mio sguardo di curioso osservatore, regalava un po’ d’aria e molta poca luce ad un ambiente che sembrava una cucina: verso la tarda mattinata riuscivo infatti a scorgere il bagliore delle pentole d’alluminio attorno alle quali la donna armeggiava. La finestra di fronte, più ampia della prima, era come – si direbbe oggi – “un interno di Cafiero Filippelli”: un tavolo con quattro sedie e un canterano a ridosso della parete.
Di colpo, verso l’ora di pranzo, l’immobile scenografia si animava: sul tavolo la donna e la ragazzina stendevano una tovaglia a quadri, sempre quella, sulla quale sistemavano ordinatamente tovaglioli, piatti, bicchieri e stoviglie. L’ultima immagine in movimento era il bloccaggio rituale della finestra; la prima, dopo la sua riapertura, era il dipinto di Filippelli. Ignoravo che cosa accadesse dopo la chiusura del sipario, ma ero in grado di figurarmelo: il sereno desinare di una famiglia, con piatti fumanti e risate scoppiettanti. Non vedevo ma sentivo, e i suoni che percepivo si trasformavano agevolmente in immagini.
Un giorno accompagnai mia nonna a fare la spesa: prima al panificio, poi alla salumeria e finalmente dal mio amico fruttivendolo, che mi regalava sempre qualcosa di buono. Il venerdì si faceva tappa anche in pescheria e il sabato in macelleria, ma quel giorno non era né venerdì né sabato. Ultimate le compere, mia nonna non si diresse verso casa ma verso un chioschetto che ben conoscevo: il mio amato fornitore di caramelle, di liquirizie e, d’estate, di favolose granite. Grande delusione quando mia nonna passò oltre e si infilò in un portone lì accanto: avrei voluto protestare ma non potevo mollare la presa dell’orlo della sua gonna e dovetti seguirla. Bussò ad una porta del secondo piano e ci venne ad aprire una donna che conoscevo, dietro la quale spuntavano i riccioli biondi e lo sguardo timido della bambina i cui movimenti quotidianamente osservavo da lontano: eravamo nella casa di fronte a quella ove trascorrevo molte mattine.
Dopo i convenevoli di rito e le scuse per la visita non preannunciata, mia nonna tirò fuori una strana storia: disse che le avevano regalato una qualità di pane che mio nonno odiava, un tipo di pasta che rifiutava di mangiare, un panetto di burro che… per carità!.. Poi degli insaccati e dei formaggi che lui non poteva neppure assaggiare per via della gastrite, della frutta che gli faceva venire acidità di stomaco e della verdura che, con decenza parlando, gli provocava diarrea. Ultimato l’elenco dei tanti mali che affliggevano il mio povero nonno, proseguì chiedendo alla signora il favore di donare tutto a qualche famiglia bisognosa, se ne conosceva qualcuna. Lei dapprima esitò, poi ricordò che il parroco della chiesa di San Francesco le aveva parlato di una coppia di anziani in difficoltà e di due sposini, lei incinta del primo figlio, che avevano bisogno di aiuto. Mia nonna non finiva più di ringraziarla e la pregò, con ostentato imbarazzo, di provvedere lei, se non le era di grave disturbo, a consegnare tutto quel bendidio a padre Leone: suo marito (mio nonno) era come se in casa non ci fosse, il figlio maschio (mio zio) le dava tanti problemi e quel nipote (io), così vivace ed impegnativo, non le concedeva un attimo di tregua.
La signora sorrise complice e annuì. Ancora tanti ringraziamenti, “Riccardo, saluta la signora e Antonella”, e poi giù per le scale, mano nella mano, con la sporta vuota. Tornammo a casa in silenzio. Avevo una domanda da rivolgere a mia nonna e aspettavo il momento giusto per farlo. Lei ripose la borsetta nell’armadio, tolse le scarpe e indossò le pantofole, sfilò il cappellino ed appese il soprabito, poi indossò un grembiule e si precipitò in cucina: c’era il pranzo da preparare. Quando finalmente ci sedemmo a tavola, le chiesi: “Nonna, può morire il nonno?”. Mi accarezzò i capelli. “Può morire il nonno?” ripetei. “Non preoccuparti: il nonno sta benissimo”. Ero convinto che mi stesse mentendo e scoppiai a piangere: “Non voglio che il nonno muoia!”. Mia nonna manifestava disagio e la cosa confermava i miei timori: “Mi stai dicendo una bugia! Il nonno sta morendo!”. “No, la nonna non dice bugie: il nonno sta bene…”. “Le dici! o le stai dicendo a me o le hai dette a quella signora!”.
A quel punto mia nonna dovette spiegarmi che eravamo andati a lasciare un po’ di provviste ad una famiglia povera, bisognosa d’aiuto anche per mangiare, e che lei, per non offendere la loro sensibilità, aveva dovuto inventarsi tutte quelle storie. “Ma se ogni giorno apparecchiano per bene la tavola!..”, osservai io. “Sì, apparecchiano, fanno rumore con piatti e stoviglie, fingendo di pranzare, e poi sparecchiano. Ogni giorno. Si chiama dignità, Riccardo”. Chiudevano la finestra per pudore non per riserbo: un pudore dettato dalla dignità. Non conoscevo questa parola, ma da allora non l’ho più dimenticata.
Alle 17:15, puntuale come un orologio, arrivò mio nonno dal lavoro: era un operaio, con lo stipendio di un operaio. Mia nonna, dopo l’abituale saluto, gli sussurrò “Sono stata dai Xxxxxx”. Mio nonno rispose solo “Hai fatto bene”.
Riccardo Della Ricca
Nell’immagine di copertina, “Preparando il desco”, opera di Cafiero Filippelli
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