TARANTO – Ogni anno la Cappella Sansevero, a Napoli, ospita 6-700 mila visitatori, incantati dalla splendida architettura barocca ed estasiati ammiratori delle sculture di Giuseppe Sanmartino, Antonio Corradini e Francesco Queirolo, delle macchine anatomiche create dal medico palermitano Giuseppe Salerno e del dipinto Madonna con Bambino del pittore romano Giuseppe Pesce, realizzato utilizzando le tempere a cera inventate dal geniale Raimondo di Sangro, VII principe di Sansevero (Torremaggiore, 30 gennaio 1710 – Napoli, 22 marzo 1771).
La cappella, nell’aspetto che oggi apprezziamo, è opera di Raimondo, ma i lavori per la costruzione dell’originaria chiesetta gentilizia presero avvio nel 1593, appena dopo l’acquisto, operato dal IV principe di Sansevero, Paolo di Sangro, dell’adiacente palazzo nobiliare in proprietà della famiglia Gesualdo, collegato al tempietto da un breve camminamento sospeso su uno stretto vicolo. In verità, il principe di Venosa Carlo Gesualdo, ultimo proprietario del palazzo, fu spinto a “svendere” la propria splendida dimora napoletana a seguito di un feroce delitto da lui compiuto: l’omicidio, avvenuto proprio in quel palazzo, della moglie Maria d’Avalos e dell’amante, Fabrizio Carafa. La precipitosa ed immediata fuga, verso l’imprendibile rifugio del castello irpino a Gesualdo (Avellino), non fu dettata dal timore di una condanna, tant’è che il viceré di Napoli, Juan de Zúñiga y Avellaneda, ebbe a riconoscere immediatamente le “giuste ragioni” del Gesualdo, ma da quello di una vendetta ordita dai Carafa, risentiti non tanto per l’assassinio del loro parente, giudicato legittimo, ma per il fatto che ad uccidere il giovane amante fossero stati dei servi e non direttamente il marito offeso. In calce al documento con cui il caso venne archiviato, il copista annotò: «Fine dell’Informatione che non si proseguita per ordine del Viceré, stante la notorietà della causa giusta dalla quale fu mosso don Carlo Gesualdo principe di Venosa ad ammazzare sua moglie e il duca d’Andria come sopra».
Ma procediamo con ordine. Carlo Gesualdo era ricchissimo, ma più che alle sue proprietà passava il tempo dedicandosi alla caccia e, soprattutto, alla musica: era un eccellente madrigalista e spesso utilizzava come librettista l’amico Torquato Tasso. Il 28 febbraio del 1586 Carlo sposò la bellissima Maria d’Avalos, una ventiquattrenne con alle spalle due matrimoni e due figli, appartenente ad una delle più prestigiose famiglie della nobiltà napoletana. Dopo appena un paio d’anni il matrimonio entrò in crisi: Carlo, di quattro anni più giovane, era terribilmente noioso ma, soprattutto, col tempo era diventato intollerabilmente sgarbato e persino manesco. Maria era una donna bella, colta, elegante, abituata ad essere rispettata, adulata, corteggiata: pensò di rivolgere altrove le sue attenzioni e divenne l’amante di Fabrizio Carafa, un nobiluomo galante e di bell’aspetto: «Vedevi un Adone se si osserva le sue fattezze; miravi un Marte se si vagheggiava la robustezza del corpo», specificava un certo Antonio Masucci, frate francescano conventuale. Di questa relazione erano tutti al corrente, forse anche il marito, ma ognuno si faceva i fatti suoi.
Un giorno, però, uno zio di Carlo, il quarantacinquenne Giulio, le cui licenziose profferte alla bella Maria erano state da lei fermamente respinte, informò il nipote del tradimento: un oltraggio all’onore della casata che, oltretutto, veniva consumato entro le pareti del palazzo di famiglia. Il principe di Venosa non aveva alternativa alcuna: i due amanti andavano entrambi uccisi, secondo quanto prescritto dal codice cavalleresco spagnolo. Fu così che Carlo pianificò la propria vendetta: finse di voler partecipare ad una battuta di caccia, salutò tutti e abbandonò il palazzo. Maria, come di consueto in tali circostanze, si affrettò a contattare l’amante e ad organizzare per la sera del 16 ottobre del 1590 il loro convegno amoroso. Durante la notte, il marito tradito, spalleggiato da alcuni sicari, fece irruzione nella camera da letto di Maria, cogliendo in flagrante i due amanti che furono brutalmente uccisi. I loro corpi, martoriati da numerose ferite e ricoperti di sangue, vennero poi esposti all’ingresso del palazzo, affinché tutti potessero verificare che l’onta era stata finalmente lavata, mentre Carlo correva a rifugiarsi nel castello di famiglia: era un musicista, non un uomo d’armi e temeva possibili (probabili) vendette. La notizia del doppio omicidio fece molto scalpore, a Napoli e non solo.
L’ambasciatore di Venezia così annotò: «Don Carlo Gesualdo, figliolo del Principe di Venosa et nipote dell’illustrissimo cardinale (san Carlo Borromeo), appositamente salito martedì alle sei di notte con sicura compagnia alla stanza di Donna Maria d’Avalos, moglie e cugina carnale (sì, i due erano anche cugini), stimata la più bella signora di Napoli, ammazzò prima il signor Fabrizio Carafa Duca d’Andria, che era con essa, et lei appresso, di questa maniera vendicando l’ingiuria ricevuta». La legge diede ragione al marito offeso, tuttavia furono in molti, indignati per il feroce delitto, a prendere le parti dei due amanti; tra questi Torquato Tasso che, nel sonetto In morte di due nobilissimi amanti, scrive: «Piangete o Grazie, e voi piangete Amori, / feri trofei di morte, e fere spoglie / di bella coppia cui n’invidia e toglie, / e negre pompe e tenebrosi orrori. […] Piangi Napoli mesta in bruno ammanto, / di beltà di virtù l’oscuro occaso / e in lutto l’armonia rivolga il canto».
È pleonastico sottolineare che il sodalizio artistico tra Tasso e Gesualdo si concluse bruscamente alla fine di quel triste anno.
Riccardo Della Ricca
Nell’immagine di copertina, il Cristo velato conservato nella cappella Sansevero a Napoli
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