MILANO – L’idea arriva osservando le donne discriminate in passato, da quanto lavoro hanno fatto per l’acquisizione dei loro diritti. È, altrettanto, propedeutica la lettura del libro di Cecilia D’Elia: “Nina e i diritti delle donne“ che porta Paola Cortellesi a firmare “C’è ancora domani”, nell’esordio come regista. Apre così la diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma, in cui quello della regista romana è il primo dei tre film italiani in concorso ed è anche il piú premiato.
Siamo nel primissimo dopoguerra, quando l’Italia diventa Repubblica grazie alle donne che per la prima volta vanno a votare. È la storia di Delia, madre di tre figli e del suo matrimonio sfortunato con Ivano (Valerio Mastrandrea), un’unione che va avanti tra violenze fisiche e silenzi: una storia che purtroppo non si può relegare in un passato remoto che non ci riguarda più. In casa con loro c’è anche il suocero, Ottorino (Giorgio Colangeli), capace di consigliare il figlio in questo modo: “Non devi picchiare Delia così spesso, altrimenti si abitua. Devi picchiarla molto più forte, ma raramente: così se ne ricorda”.
La Cortellesi usa per tutto il film il bianco e nero, e lo dedica alle donne che nessuno ha mai celebrato, alle nostre nonne e bisnonne considerate nullità: “Volevo raccontare la vita di quelle donne che nessuno ha mai celebrato, quelle che, come niente, si prendevano uno schiaffo in faccia dal proprio marito”. Per difendere le proprie idee, i propri figli. La pellicola è stata girata nel quartiere Testaccio di Roma, ove è ripreso il mercato “ricostruito”, pieno di gente e dove attori e regista hanno fatto fatica a lavorare, ma hanno ricreato un ambiente vivo.
La casa era invece a Cinecittà, creata da Paola Comencini, scenografa straordinaria. Paola Cortellesi sbanca alla Festa del Cinema con un jackpot di tre premi ricevuti: il Premio del Pubblico, la Menzione Speciale Miglior Opera Prima, il Premio Speciale della Giuria, oltre i botteghini, già nella prima settimana di proiezione.
Portare alla luce le ombre della vita delle nostre nonne, donne silenziose e operose, che sono state sempre considerate nullità, perché così avevano dovuto imparare, induce a pensare che parte di quell’eredità è ancora incisa sulla nostra pelle e dentro di noi.
Claudia Gaetani
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