NAPOLI – Perché il dolore? C’è qualcuno che ascolta il mio grido? Vedere persone soffrire, accudire figli, genitori, amici che soffrono spesso porta a non trovare una reale giustificazione del perché il male esista, del perché nella vita bisogna soffrire. Ancor di più assistere i propri cari in sofferenza e non trovare motivi adeguati a spiegare un dolore che taglia le gambe. Ma Dio dov’è? Perché tanto male?
Anche di fronte alla guerra in atto, anzi alle guerre visto che ne sono presenti tragicamente diverse decine in tutto il mondo, o a tanto male diffuso dappertutto; vedere le immagini di Kiev dove accade che ci si spara per aggredire un fratello, per obbedire alle nefandezze di uno squilibrato, forse due. Che assurdità!
Ma chi può giudicare? Chi può sapere quanta angoscia pesava sul cuore della mamma che ha ucciso i suoi due figli disabili o chi per gioco ha sparato solo perché in preda a effetti da “polveri bianche”? Una manciata di follia tale da spingere ad uccidere, attimi di straordinaria pazzia che portano a gesti non comprensibili. Giobbe implorava Dio di dargli una risposta, un segnale: “Io grido a te, ma tu non mi rispondi; insisto ma tu non mi dai retta”. Una figura biblica segnata da una sofferenza profondissima. Domanda, accusa, chiede conto a Dio del male che patisce. Quante volte lo avrà fatto la mamma dei disabili o dei soldati uccisi in Ucraina o tutti coloro che portano dentro questa enorme e misteriosa domanda? Quanti “perché” avranno chiesto? E quante domande avranno fatto? Qual più grande desiderio di vedere uno spiraglio di speranza, di letizia?
Non ci sarebbe motivo di guardare i figli, i cari, gli amici se non si avesse ricevuto uno sguardo amorevole verso se stesso, se non ci si sentisse guardati come una cosa preziosa.
Ma Giobbe ad un certo punto esclama: “Ora i miei occhi ti hanno veduto”, quando finalmente Dio risponde al suo grido. Ma quali parole possono far dire così a un uomo che soffre? Non c’è parola o spiegazione che regga l’urto del dolore. C’è, invece, un abbraccio, un Avvenimento, un Amore che arriva quando meno te l’aspetti, che incontri per strada, che ha la faccia di uno sconosciuto o di un collega. La risposta è questo Avvenimento che ha la pretesa di costituire la storia con cui Dio accompagna l’uomo per affrontare l’enigma della sofferenza. Qualcosa di atteso e presente che ci fa alzare meno stanchi, più lieti dentro la fatica. Un abbraccio che ci fa tornare a scuola ed incontrare i colleghi con maggiore serenità, sorvolando su questioni ideologiche che per anni hanno portato all’insofferenza, alla reazione, al disamore per un certo tipo di quotidianità pungente e soffocante solo perché appartieni ad una storia che, per alcuni, non ha motivo di essere, un’amicizia che porta molta invidia poiché razionalmente inspiegabile.
Nel grande mondo della filosofia sia Lessing che Kant, ma tutti noi siamo così, hanno rifiutato il valore dell’Avvenimento cristiano. Parlare di pace in maniera astratta non ha più senso, manifestare con luci e lucette, “combattere per la pace” oppure “occupiamo l’Università per la pace” come gridano degli slogan a Via Mezzocannone (la via dell’Università qui a Napoli), ma che senso ha? Che paradosso, che assurdità, che controsenso. Ma la pace dove nasce se non da un incontro, da un abbraccio, dal rispetto di chi si ha al fianco? Certo è che si è dovuto riconoscere che la sofferenza innocente, del male non regge senza l’esperienza dell’evento cristiano, dell’abbraccio insperato, della vicinanza di un amico che non ti aspetti, di un Amore più grande. E allora l’esperienza porta a decidere quotidianamente di essere guidati o meno, sostenuti o meno da questo abbraccio che sfida la ragione di ogni uomo. Ieri come oggi.
Innocenzo Calzone
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