NAPOLI – Strano a dirsi ma anche ai nostri giorni sentendo parlare alcune persone, vedendole all’opera non si può non rimanere avvinti dalla bellezza del loro sguardo, privo di ogni pretesa e di ogni violenza, dalla tenerezza e dalla persuasione che trasmettono nelle loro parole e nei loro gesti. E immediatamente viene fuori l’espressione: “Ma questo è un santo”. Ma chi è un santo? Come fa a definirsi una persona santa? Come viene nominata tale? Non è qui il caso di specificare tutti i passi che portano una persona ad essere nominata santa ma quello che interessa di più è la domanda: “Come faccio io a tendere alla santità? Come e cosa significa esserlo?”. O anche: “M’interessa veramente esserlo?” Spesso, anche inconsciamente, ci si muove alla ricerca del bello, alla ricerca di una correttezza di gesti, di opere, della legalità, della purezza della forma. Ma tutto questo basta ad essere santi?
“Santità” vuol dire abbandono alla Realtà che ci supera in tutti i sensi e che non è neanche legata alle possibilità che il Mistero ci dà di rispondere a quelle sollecitazioni a cui ci tende.
Ciò che caratterizza la figura di un santo è sicuramente un atteggiamento di umiltà, perché il santo acutamente e drammaticamente fa esperienza della sua fragilità e ha coscienza del proprio peccato; una letizia, che non è dimenticanza della fatica del vivere, ma coscienza che la nostra salvezza è possibile nonostante il nostro male; una povertà di spirito, una povertà di sé che si traduce in desiderio di voler fare la volontà di Dio, nella preghiera che non sia riconosciuta la nostra gloria, ma la sua.
Nell’Angelus per la Solennità di Ognissanti il Papa ha esclamato: “Chiediamoci da che parte stiamo: quella del cielo o quella della terra? Viviamo solo per noi stessi? Viviamo per la felicità eterna o per qualche appagamento ora? Domandiamoci: vogliamo davvero la santità? O ci accontentiamo di essere cristiani senza infamia e senza lode, che credono in Dio e stimano il prossimo ma senza esagerare?”. “O santità o niente!”, ha incalzato Francesco: “Ci fa bene lasciarci provocare dai santi, che qua non hanno avuto mezze misure e da là ‘tifano’ per noi, perché scegliamo Dio, l’umiltà, la mitezza, la misericordia, la purezza, perché ci appassioniamo al cielo piuttosto che alla terra. Per il Papa, “Non si tratta di fare cose straordinarie, ma di seguire ogni giorno questa via che ci porta in cielo, in famiglia, a casa. Oggi quindi intravediamo il nostro futuro e festeggiamo quello per cui siamo nati: siamo nati per non morire mai più, siamo nati per godere la felicità di Dio!”.
“La festa del 1 novembre è la festa di tutti gli uomini e le donne che coscienti dell’incompiutezza di ogni proprio gesto, si rivolgono ad un ‘tu’ perché ‘venga’ e dia quella pienezza di cui non siamo capaci. È la festa di chi ha avuto la libertà di mettere un ‘tu’ al cuore della propria vita e del proprio agire, non solo nei momenti di palese bisogno, ma nella costruzione di ogni giornata”. (Frangi) Forse è vero che la festa di Tutti i Santi sembra così lontana. Ma è proprio per il fatto che siamo in un’epoca dominata invece dal concetto di super-io cioè io basto a me stesso, non ho bisogno di altro, di Altro; e da questa illusione di avere la perfezione a portata di mano nasce il disinteresse alla santità.
Don Giussani scriveva qualche tempo fa: “La santità è affermazione dell’impossibilità che l’uomo ha, nella realtà, di compiere anche un solo gesto perfetto, l’incapacità che l’uomo ha a guardare un solo istante, nella sua vita, come perfetto”. La santità non è quindi raggiungimento di una perfezione, ma coscienza vissuta di questa impossibilità di perfezione. Se c’è una cosa che non comprendiamo, moralmente parlando, è la parola “santità”. Tanti non ne comprendono il significato, il valore. Troppo distante, troppo astratto. Invece la santità è per noi semplicemente e drammaticamente tensione, desiderio di compimento, desiderio di felicità.
Innocenzo Calzone
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