ENNA – Qualche settimana dopo la festa dei morti, mia nonna orchestrava i preparativi per il Natale. I fichi erano stati essiccati, i meloni gialli conservati nel sacco di retina delle patate e le mandorle esposte all’ultimo sole di novembre, le olive verdi giacevano in salamoia e quelle nere sotto sale. Ai primi di dicembre, il maiale, ingrassato a dovere, era pronto per essere macellato. Un rito che in Sicilia e nel meridione era sacro: una festa per la festa. Si aspettava il vento di tramontana e i miei nonni con i parenti prossimi si riunivano in campagna per macellare il povero maiale. Era un lavoro fatto all’alba, quando noi bambini eravamo profondamente addormentati. Al nostro risveglio vedevamo troneggiare la povera bestia appesa a testa in giù nella grande stanza del casolare: riesco ancora a percepirne l’odore. I giorni successivi erano un andirivieni delle mie zie, le sorelle della nonna, delle figlie e delle mie cugine.
Un esercito di donne che armeggiavano davanti al grande tavolo, alla cucina e al forno al legna. Salsicce e salami venivano appesi in uno stanzino ad essiccare, mentre gli scarti, la testa, le zampe erano usati per la gelatina. Il grasso, a saimi, era stipato in grossi contenitori e gelosamente conservato per preparare i dolci tipici natalizi: giammelli e picciddrati di ficu o di minnuli. La preparazione dei dolci era lunga e laboriosa: le mandorle andavano sgusciate, pelate, triturate e aromatizzate con succo di mandarino o liquore. Si lasciava riposare l’impasto per una notte. Al mattino presto le anziane preparavano la frolla, le più giovani ardevano il forno, noi bambine tagliavamo con il bicchiere la base per i buccellati. Era un intreccio di dita, un lavoro a catena e ogni tanto piccole manine staccavano furtivamente pezzettini di impasto che ingollavamo velocemente per non farci scoprire dai grandi. Chili e chili di dolci, farina ovunque, odori buoni, di legna e di mandorle, ore passate insieme a raccontare cunti e storielle. Mia nonna era una grande affabulatrice e io pendevo dalle sue labbra. C’era odore di famiglia, c’era odore di pace.
Arrivava poi il tempo delle cartoline. Ero io la delegata a comprarle, le sceglievo con cura dal tabaccaio vicino la piazza principale: trifogli e stelle di Natale per le zie; angioletti paffuti per le mie cugine che si erano trasferite in Germania. Attendevo i loro biglietti augurali con una trepidazione che non ho più provato da allora. Li ho conservati per anni. Mi piaceva la grafia in stampato minuscolo che usavano le “ tedesche”, mentre noi usavamo il corsivo. Io per darmi un tono cercavo di imitare i ghirigori che faceva mio nonno nelle lettere maiuscole. Il risultato era un pasticcio ma le spedivamo ugualmente.
La sera della vigilia la cucina era impregnata di ogni sorta di odore: cavolfiore in pastella, baccalà fritto, sughi, fruate, cardi, carne, frittatine varie. Un pot-pourri di sapori e odori che avrebbe fatto inorridire qualche rinomato chef ma assai gradito dai commensali, una ventina minimo. Si imbandivano due tavole, una per i grandi con il servizio buono, l’altra per i bambini con i piatti spaiati di precedenti servizi.
Finita la cena, le donne si fiondavano in cucina a lavare i piatti o a preparare il soffritto per il ragù del pranzo di Natale o a “sparlucchiare” di qualche lontano parente o di un fidanzamento andato a male; gli uomini invece continuavano a sgranocchiare frutta secca mentre giocavano a briscola. Noi piccoli ce ne stavamo assiepati attorno al foglio spesso cartonato, color écru con le scritte rosse della tombola. Io sceglievo sempre la cartella n. 23 e usavo i bottoni che avevo sottratto a qualche vestito per coprire i numeri estratti, mio fratello usava invece i legumi e spesso i ceci rotolavano a terra perché poggiate su tavoli malfermi e si ricominciava daccapo con grande arrabbiatura di coloro che attendevano qualche numero per la cinquina. Qualcuno di noi crollava sulle sedie attendendo il fatidico numero, altri invece fremevano e se toccava a me estrarre, pur di non far vincere mio fratello, baravo. A mezzanotte si posava il Bambinello nella mangiatoia e ci scambiavamo gli auguri.
Il giorno di Natale si ricominciava a cucinare, di nuovo tavole apparecchiate, pranzi luculliani, interminabili, intercalati da risate, da discorsi, da un rievocare di episodi, aneddoti, era uno stare insieme, un guardarsi negli occhi, un intendersi e tra una pietanza e l’altra, tra il caffè, il dolce, l’ amaro e qualche tisana il pranzo si allungava quasi fino all’ora di cena.
Il Natale era festa solenne per i membri della mia famiglia. Ora, molti dei cari non ci sono più, qualcuno è partito e non è poi tornato dal continente, altri sono rimasti ma non sono più gli stessi: io, ad esempio. Mi sono riempita la testa di pensieri grigi, annichilita nel lavoro, lasciata avviluppare dalla frenesia. Sono diventata grande e, prima di scrivere queste righe, avevo dimenticato la magia del Natale. Ho rischiato di perdere un pezzo della mia vita, un patrimonio che mi porto dentro ma che era sepolto nei meandri della mia memoria. Ora, rievocandolo, so che ho vissuto una fiaba che i miei figli purtroppo non potranno conoscere se non attraverso il ricordo di chi la racconta: Il mio Natale.
Tania Barcellona
Bellissimo!
Il Signore dia a tutti la capacità di aprire i meandri della memoria non solo come nostalgia, ma come riscoperta di valori e profumi che è ancora possibile trasmettere alle nuove generazioni. Grazie, Tania e BUONE FESTE
Bellissimo brano, grazie per avere evocato ricordi lontani. Ai colorato il mio Natale