NAPOLI – Fare il ragù a Napoli è un’antica arte tramandata da madre in figlia. Per avere un buon ragù, occorre innanzitutto armarsi di tanta pazienza, perché, secondo tradizione rigorosamente napoletana, occorrono almeno sei ore. Nelle prime due ore, a fuoco lentissimo, in una pentola di coccio, viene fatta consumare una cipolla tritata finemente e poi fatta rosolare la carne, indicativamente 1,5 Kg in vari tagli, da preferire un misto di pezzi speciali, detti “muorze ‘e chianchiere”, con il lardo tritato e la sugna. Il composto va periodicamente girato con un cucchiaio di legno e irrorato da vino rosso. Va poi aggiunta della conserva di pomodoro stemperata con piccole quantità di acqua e fatta cuocere per un paio di ore. La carne, coperta a filo con acqua bollente o brodo, viene prosciugata con una cottura a fuoco lentissimo, a Napoli detta “pippiare”, per altre due ore circa, in modo da ottenere un perfetto insaporimento di ogni ingrediente. Il ragù è pronto, finalmente, per unirsi ai paccheri o alle candele spezzate.
Una delle commedie più belle di Edoardo De Filippo, scritta nel 1959, “Sabato, domenica e lunedì”, inizia con una scena in cucina e vede la protagonista, donna Rosa, intenta a preparare il ragù per il pranzo domenicale. Accanto a lei c’è Virginia, la cameriera. Donna Rosa ribadisce che sta cucinando il vero ragù napoletano e non carne bollita con pomodoro e cipolla: “Adesso mi vuoi insegnare come si fa il ragù? Più ce ne metti di cipolla più aromatico e sostanzioso viene il sugo. Tutto il segreto sta nel farla soffriggere a fuoco lento. Quando soffrigge lentamente, la cipolla si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera; via via che ci si versa sopra il quantitativo necessario di vino bianco, la crosta si scioglie e si ottiene così quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro e si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro quando il vero ragù è riuscito alla perfezione. La buonanima di mia madre diceva che per fare il ragù ci voleva la pazienza di Giobbe. Il sabato sera si metteva in cucina con la cucchiaia in mano e non si muoveva da vicino alla casseruola nemmeno se l’uccidevano. Lei usava o il tiano di terracotta o la casseruola di rame. L’alluminio non esìsteva proprio. Quando il sugo si era ristretto come diceva lei, toglieva dalla casseruola il pezzo dì carne di annecchia e lo metteva in una sperlunga, come si mette un neonato nella connola, poi situava la cucchiaia di legno sulla casseruola, in modo che il coperchio rimaneva un poco sollevato, e allora se ne andava a letto, quando il sugo aveva peppiato per quattro o cinque ore. Ma il ragù della signora Piscopo andava per nominata…. E quello papà, se non trovava il ragù confessato e comunicato faceva rivoltare la casa… Ma era pure il tipo che ti dava soddisfazione. Venivano gli amici e dicevano ‘Signo’, ma come lo fate questo ragù che fa uscire pazzo a vostro marito? L’altra sera ci ha fatto una testa tanta: “E il ragù di mia moglie sotto, e il ragù di mia moglie sopra…”’, e mammà tutta contenta l’invitava; e quando se ne andavano dicevano: ‘Aveva ragione vostro marit’. E si facevano le croci”.
Il grande Eduardo De Filippo, ha reso omaggio al ragù napoletano, anche con la celebre poesia ‘O ‘rrau:
‘O rraù ca me piace a me
m’ ‘o ffaceva sulo mammà.
A che m’aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
Io nun sogno difficultuso;
ma luvàmell”a miezo st’uso.
Sì, va buono: cumme vuò tu.
Mò ce avèssem’ appiccecà?
Tu che dice? Chest’è rraù?
E io m’a ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià…
M’ ‘a faje dicere na parola?
Chesta è carne c’ ‘a pummarola.
Amalia Ammirati
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