MONTALTO DI CASTRO (Viterbo) – L’8 e il 9 novembre del 1987 hanno segnato una data storica per l’Italia. I cittadini furono chiamati al voto per esprimersi su cinque referendum abrogativi, tre dei quali ponevano in sintesi il quesito: volete abrogare la legge che consente la realizzazione di centrali nucleari sul territorio nazionale? E la vittoria del Sì segnò in pratica l’abbandono di una scelta, quella appunto dell’energia nucleare, già decisa dal Governo centrale.
Le conseguenze non furono soltanto di carattere politico e amministrativo ma anche a livello sindacale lo scontro non fu affatto indolore.
In riva al Tirreno, a Montalto di Castro, provincia di Viterbo, proprio in quegli anni era in costruzione una centrale che sarebbe dovuta essere alimentata a energia nucleare. Nel suo picco massimo il cantiere ha impegnato circa seimila persone tra amministrativi, operai e indotto. Centinaia i trasfertisti giunti da ogni parte d’Italia. Il referendum ne decretò in pratica lo stop con la successiva riconversione a policombustibile (gas e olio) e il susseguente ridimensionamento dei livelli occupazionali e lo spettro dei licenziamenti che si faceva sempre più consistente. Cassa integrazione straordinaria e mobilità non riuscirono a placare gli animi. Le proteste dei lavoratori durarono settimane, anzi mesi, e si svilupparono anche con blocchi stradali sulla trafficatissima via Aurelia e sulla importantissima linea ferroviaria Roma-Livorno-Genova. Quattro gruppi a olio combustibile da 660Mw più 8 turbogas da 120 Mw, la centrale inizia la produzione di energia elettrica nel 1989 ma mai a pieno regime. Lentamente e inesorabilmente perde consistenza fino al totale spegnimento.
L’impianto Enel di Montalto di Castro – 400 ettari di terra strappata all’agricoltura – tra costruzione e riconversione è costata 14 mila miliardi di lire, di cui 7 miliardi in tangenti a politici, amministratori e imprenditori. Negli anni ’90 sulla centrale montaltese infatti mette le mani la Magistratura. Saltano fuori mazzette miliardarie incassate da politici, amministratori dell’Enel e vari imprenditori coinvolti nella costruzione dell’impianto energetico. Nomi importanti, tra gli indagati spicca quello dell’allora segretario nazionale del Psi, Bettino Craxi. L’accusa è di corruzione e violazione del finanziamento pubblico ai partiti. Vanno al patteggiamento l’ex tesoriere della Democrazia Cristiana, Severino Citaristi, e alcuni noti imprenditori. Per altri 22 imputati rinviati a giudizio, tra cui l’ex segretario del Pli, Renato Altissimo e alcuni ex componenti del Cda dell’Enel, interviene la prescrizione. Bettino Craxi si salva in quanto la Camera dei Deputati respinge la richiesta di autorizzazione a procedere.
Una storia travagliata quella dell’impianto in riva al Tirreno che con i suoi 3600 megawatt di potenza elettrica era la più grande d’Europa. Eppure, nonostante i costi e le promesse, non è mai stata utilizzata nella sua piena potenzialità arrivando a trasformarsi in un fallimento economico per l’Enel e per lo stesso Stato italiano.
E oggi, passando in auto nei pressi del 116mo chilometro della via Aurelia, guardando verso il mare, si vede quell’ecomostro che doveva far uscire l’Italia dalla sudditanza energetica degli altri Paesi. A trentasei anni dall’inizio dei lavori per la sua realizzazione e a trentuno dal quel referendum abrogativo è del tutto ferma mostrandosi invece come il monumento alle scelte sbagliate di una politica energetica italiana mai realizzata.
Nelle foto, le proteste degli operai della centrale Enel di Montalto di Castro
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