MILANO – L’attualizzazione storica pone talvolta dei problemi, prestandosi a faziose strumentalizzazioni; ma una riflessione sulle parole, esaminandone l’origine e la continuità nel presente, può trovare tutti concordi. Certo in una comunicazione ormai così deprivata del “parlato” e costituita per lo più da acronimi ed emoticon può risultare non facile, tuttavia val la pena produrre qualche esempio. Nell’anno appena trascorso, caratterizzato da eventi molto gravi, tante parole drammatiche hanno registrato una frequenza d’uso più elevata del solito come femminicidio, cambiamenti climatici, guerra, accanto ad altre che si sono parimenti distinte per una sorta di abuso.
Una è senza dubbio onore, termine che si presta a molteplici interpretazioni, basti pensare alla connotazione negativa di espressioni quali “codice d’onore” e “uomo d’onore” dell’ambito semantico mafioso o “delitto d’onore” proprio della mentalità patriarcale. Altri significati del vocabolo in questione, invece, sono più vicini all’etimo originario che rimanda alla dignità ed al valore morale di una persona. Modi di dire come “onore al merito”, “fare gli onori di casa”, “menzione d’onore”, “onori funebri” – solo per citarne alcuni – rimarcano il senso di rispetto che la comunità prova nei confronti di coloro che si sono comportati con onore. Tutti ricorderanno che nell’antica Roma la carriera di chi decideva di dedicare la sua vita al servizio della Res Publica veniva definita “cursus honorum” che indicava, appunto, la serie progressiva delle cariche pubbliche (honores) rivestite. L’accusa di immoralità, di indegnità (probri causa) dava ai Censori la possibilità di espellere dal Senato i membri ritenuti colpevoli di crimini o atteggiamenti disonorevoli.
Spirito alla base, ancor oggi, dell’articolo 54 della Costituzione Italiana che recita: “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. Si tratta, dunque, di una parola che non può e non deve essere usata con leggerezza, pena lo scadere irrimediabilmente nel ridicolo. È davanti agli occhi di tutti quanto poco onorevoli siano o siano stati anche nel passato i comportamenti di alcuni politici. D’altronde onore ha la stessa radice di onesto (honestus/onorato da honos) traduzione del greco kalòn, (τὸ καλόν), ossia il bello morale, che indicava appunto l’onorevole ovvero chi, operando in modo appropriato alla carica rivestita, godeva di rispetto e buona reputazione.
La polisemia dei termini, come in specifico per onore ed onesto, evidenzia anche in senso diacronico aspetti interessanti; per esempio quando sono guidati dalla distinzione di genere. In un passato poi non così lontano, quando si attribuiva ad una donna l’aggettivo onesto era per indicarne l’illibatezza e conseguentemente il suo futuro codificato di moglie fedele e madre esemplare. Il suo onore e la sua virtù erano quindi circoscritti nel rispetto delle regole fissate da padri, fratelli e mariti; infrangerle poteva comportare anche la morte. Tema ricorrente nella filmografia della “commedia italiana”, in cui una generazione intera di grandi interpreti e registi hanno rappresentato magistralmente vizi e virtù del costume italiano, solo due titoli per tutti “Sedotta e abbandonata” del 1964 diretto da Pietro Germi e “La ragazza con la pistola” (1968), diretto da Mario Monicelli.
La chiave interpretativa letteraria va, invece, adottata per l’incipit del sonetto di Dante “Tanto gentile e tanto onesta pare” (Vita Nova 1292-1294) in cui i due termini alludono rispettivamente alla nobiltà d’animo, secondo lo Stilnovismo, della donna e alla compostezza di modi ed atteggiamenti della stessa verso chi la ammira, secondo l’etimologia latina. Il termine onesto ormai si usa per lo più prevalentemente in accezione “commerciale-economica”, in linea con una visione del mondo come mercato, quindi è definito così chi non ruba e non imbroglia. Ancora l’avverbio onestamente, dall’honest inglese che definisce onesto colui che dice la verità, viene usato al posto di sinceramente.
Altra parola molto gettonata e espressa spesso in tono concitato ed esclamativo è “vergogna”, rivolta a chiunque esprima una tesi che non si condivida. Per l’etimo occorre ricorrere alla nobile, quanto desueta, gemella “verecondia” dal latino verèri (riverire, aver rispetto), che definisce quel sentimento di disagio provato rispetto ad una condanna sociale, vissuta come un dis-onore.
Troppo facile affermare che oggi nessuno prova più vergogna perfino per atti inqualificabili, ma quanto sarebbe più costruttivo anche di fronte alla meno sostenibile delle posizioni scegliere la strada del dialogo, del confronto, della parola-scambiata. Addirittura facilissimo scaricare tutte le colpe sul web che consente o peggio incrementa una dilagante volgarità e povertà lessicale. In questo mondo virtuale nessuno dice più ciò che pensa realmente, ma solo ciò che non disturba i followers, in modo da guadagnarne simpatia e consenso.
Nei giorni scorsi, il giornalista Massimo Gramellini ha commentato ironicamente sul Corriere della Sera un recente episodio di cronaca che ha visto coinvolti un ministro ed i soliti inferociti “leoni da tastiera”, sempre pronti a pontificare con veemenza se protetti dell’anonimato, ma che in un contradditorio reale sarebbero senza dubbio in difficoltà. Il giornalista ha affermato “onestamente” (in accezione anglofona!) che siamo di fronte “all’ultima frontiera della democrazia: magari a Capodanno non ti ha fatto gli auguri nemmeno tuo fratello, però hai un ministro in diretta a cui dare, e che ti dà, del cretino”.
Adele Reale
Lascia un commento