ROMA – Prima che Luigi Tenco si togliesse la vita per protestare contro il vuoto delle canzoni in concorso a Sanremo e che Edoardo Bennato, negli anni ’70, scrivesse “Sono solo canzonette”, c’era già stato un tentativo di restituire dignità alla canzone italiana. Era iniziato nel 1956, quando Pierpaolo Pasolini aveva scagliato la prima pietra contro i “parolieri di regime”, in un articolo su “Avanguardia”, dal titolo “Rinnoviamo i canzonieri”. Il messaggio era stato forte: secondo lui ciò che si ascoltava nella televisione che stava giusto allora costituendosi come principale strumento di formazione, non faceva altro che propinare lezioni di irrealtà ad un pubblico destinato a “ripetere” ma anche a perdere tutto il suo patrimonio culturale. Migliaia di canzoni, in quel momento, ruotavano intorno all’amore e alla felicità in tutte le loro declinazioni. L’Italia sembrava aver dimenticato tutti i valori maturati anche durante l’esperienza delle due guerre e si incamminava verso l’ottundimento dovuto alla edulcorata censura “piccolo borghese e democristiana”.
Ed ecco, allora, che intorno a Pasolini si riunì un gruppo di intellettuali accomunati da un sogno: usare la musica italiana come veicolo della poesia, che la divulgasse, che non la condannasse all’oblio. “I Cantacronache” – così si chiamarono i paladini di questo ambizioso progetto – coinvolsero grandi nomi della letteratura del ‘900: oltre a Pasolini, militarono nel movimento Franco Fortini, Eugenio Montale, Italo Calvino, Salvatore Quasimodo, tutti convinti a battersi contro la “canzone sciocca e piccolo borghese”. Con loro si allearono cantanti come Sergio Endrigo, Gabriella Ferri, Domenico Modugno e attori, tra cui Laura Betti. Dall’esperimento (1957-58), nacquero delle perle visibili fino al 13 settembre al Castello di Santa Severa, dove nella Sala Pyrgi, è esposto in una mostra (titolo: “Tu parlavi una lingua meravigliosa”), parte dell’amplissimo materiale fotografico, testi e vinili a riprova del grande coinvolgimento e dell’energia che l’intellighenzia dell’Italia in pieno boom economico profuse in questa utopia: non permettere che il popolo fosse trasformato in mero pubblico e fare della canzone uno strumento di descrizione del reale e di formazione delle coscienze.
Gli ideatori della mostra – Giuseppe Garrera e Igor Patruno – sono stati mossi dal desiderio di omaggiare questo movimento il cui testimone è stato lasciato poi ai cantautori successivi, negli anni ’70. Ma di quell’esperienza rimase una traccia sempre più labile, che si dissolse del tutto, sopraffatta da tormentoni e non sense, canzoni facili, orecchiabili e disimpegnate. Garrera e Patruno, nel pensare al percorso nelle sale del castello, hanno fatto in modo che mentre i visitatori osservano le teche possano ascoltare poesie direttamente dalla voce degli autori e così è un’emozione indescrivibile rendersi conto, all’improvviso, che è proprio Eugenio Montale a leggere la sua “Meriggiare pallido e assorto”, “con parole vere – sottolinea Garrera – prive di retorica, così come sono nate”. Il messaggio di realismo, infatti, è proprio quello che i Cantacronache avrebbero voluto far passare. Tanti i tentativi ma il più audace fu quello di metterle in musica, quelle poesie, che raccontavano la vita vera ed erano dense di valori e di impegno civile perché deputate a far nascere una canzone “alta”. Era anche un modo per non farle morire. Ultimo esperimento, nel 1976, fu la collaborazione tra lo scrittore, giornalista, partigiano Roberto Roversi con l’allora giovanissimo Lucio Dalla.
La censura della Rai sui testi, però, mise la parola fine al movimento, già in difficoltà per motivi economici, ma soprattutto sempre in guerra con la mentalità perbenista della società consumistica e della Rai che mirava a fare del popolo un pubblico moderato e privo degli eccessi che a volte la letteratura si concede. “Più che altro – sottolinea Igor Patruno – questi intellettuali non riuscirono ad opporsi alla tendenza a trattare le persone senza rispetto, in maniera poco dignitosa, come se non fossero intelligenti”. Ma allora si era solo all’inizio. Cosa è rimasto di quel progetto utopico nella canzone italiana contemporanea? “Mah – dice Igor Patruno – forse ci sono alcuni gruppi che vanno alla ricerca di un rapporto tra poesia e musica ma questi sono celati nelle proposte di nicchia, non certo nella musica ufficiale. Forse il rap sta facendo dei tentativi ma il più delle volte ci troviamo di fronte ad una canzone che sembra di impegno ma è più di facciata che altro”.
Quel che si sente trasparire da questa mostra è un messaggio chiaro, di protesta contro una certa tendenza ad omologarsi in ogni aspetto della vita. Nelle intenzioni di Patruno e Garrera si sente un secondo fine che se anche non dichiarato, è però sotteso a quello artistico: ricordare che c’è di più, nella nostra cultura, e che questo di più va salvaguardato. Ne è convinta anche Maria Grazia Calandrone, poetessa, drammaturga, insegnante, autrice e conduttrice. “Per uscire da questo corto circuito della canzone italiana – afferma – credo sia necessario che i musicisti abbiano il coraggio di far passare la poesia, anche quella contemporanea di qualità, nelle loro canzoni. Solo così – continua – si può far rivivere quella bella stagione densa di contenuti ed emozioni”. Secondo Calandrone non sarebbe il pubblico il vero problema perché la canzone deve proprio servire a formare la sua sensibilità, non il contrario. “Non continuiamo a dire – continua – che sia il pubblico a non saper apprezzare la canzone ‘alta’, in realtà manca chi lo guidi in questo percorso. Io, quindi – annuncia – lancio la sfida agli artisti più noti: mettete in musica la poesia vera, non parole a caso, e vediamo cosa succede”.
Dopo tanti anni di “sole canzonette” con la mostra di Santa Severa un messaggio chiaro è stato lanciato: il panorama musicale deve cambiare. Qualcuno sta già lavorando in modo nuovo: Alberto Fortis, Ivano Fossati, Grazia Di Michele e Mariella Nava, quest’ultima con il suo vivaio di giovani come il cantautore Valerio Lysander e Marco Martinelli. Qualcosa bolle in pentola e San remo 2021 potrebbe essere una prima risposta a questa voglia di novità.
Gloria Zarletti
Nell’immagine di copertina, il Castello di Santa Severa
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