ENNA – Una emergenza. Un pandemonio. Una guerra subdola che stermina preoccupazione, panico e morte. I numeri dei decessi sono ormai a quattro cifre anche per l’Italia, per il Bel Paese che ha preso misure drastiche per il contenimento del contagio da Coronavirus solo da qualche settimana, quando ormai l’inferno si era scatenato. Un’epidemia sottovalutata, quasi snobbata nonostante avessimo sotto gli occhi il modello cinese.
“È un’influenza, che colpisce solo gli anziani” dicevano i nordisti. “Una banalissima influenza” titolavano i giornali. “Tanto qui non arriva” facevano eco i sudisti. “Lavatevi bene le mani, anzi no: disinfettatele” proclamavano i social. “Evitate i luoghi affollati, non abbracciatevi, non baciatevi. Non preoccupatevi” rassicuravano i virologi.
Il popolo italiano era ottimista, credeva di poter fermare il virus sulla linea del Piave, almeno fino a qualche settimana fa. E invece, in uno breve lasso di tempo, è arrivata la disfatta, sono arrivati i caduti e i feriti e gli eroi e gli strateghi e persino i deportati. È guerra su tutto il territorio, dalla Lombardia a Lampedusa, da Est a Ovest. È guerra mondiale, anzi. Una guerra che si insinua dentro le case, che sveglia dal torpore, dalle banali preoccupazioni e tensioni e costringe a rivedere atteggiamenti, a misurare priorità. Una guerra che si combatte in trincea: negli ospedali; è un’aggressione che si combatte sui social: una lunga scia di nere parole a funestare animi già annichiliti dalla malattia o dalla paura del contagio, dall’ansia dei cari lontani da casa.
Anche qui in un remoto paesino, di una remota provincia siciliana, il coronavirus ha fatto il suo ingresso sterminando il panico e ancor più lo sciacallaggio mediatico. Sui social si postano foto, si inviano audio, si additano persone esasperando una condizione psicologica e fisica che è già provata dal dubbio, dalla maldicenza. Gente che è costretta a replicare, a dirsi viva, a proclamarsi sana, a fotografarsi per salvarsi dalla gogna mediatica, il moderno tribunale dell’Inquisizione. Che barbarie.
Molta gente sembra ormai impazzita, esasperata dalle restrizioni, arrabbiata per un sistema sanitario esistente, che già al Sud non riesce a reggere i pochi casi di Coronavirus e riversa le sue paure sulla pubblica piazza di Facebook, attaccando le istituzioni, provocando un dibattito sterile, infondendo paura e panico. È l’anarchia mediatica. Chi resiste, pochi in verità, a non declamare i suoi guai sul foro virtuale se ne sta nel chiuso della propria camera piegato su se stesso, preoccupato per l’attività commerciale chiusa, per quella visita oncologica che non potrà fare, per quei genitori anziani che non potrà accudire, per quei figli lontani che, a dispetto della paura, sono rimasti al Nord. E il pensiero corre a quella nonnina che se ne sta magari assorta in preghiera, affidando se stessa e i propri cari a quel Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola e che chiede di immolare la propria vita piuttosto che quella del suo nipotino.
E il pensiero va a chi deve porgere l’estremo saluto attraverso un vetro al proprio padre o al fratello o all’amico che non ce l’ha fatta, che ha chiuso gli occhi al mondo invocando il nome del figlio o della moglie, della mamma o della fidanzato. Se ne vanno: lucidi, soli, stravolti. Eppure di fronte a questo immane dolore c’è chi riesce a rimanere sordo e cieco e continua a bighellonare per le strade in nome del proprio bene e della propria libertà. Che meschinità.
È vero, il virus più pericoloso è l’indifferenza e – ahimè – per quello non c’è vaccino che tenga.
Tania Barcellona
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